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Parkinson

Dr. Mauro Colangelo

Dr. Mauro Colangelo

Neurochirurgo Medico Chirurgo, specialista in Neurologia ed in Neurochirurgia Creato il: 16/07/2017 Ultimo aggiornamento: 21/09/2023

La malattia di Parkinson, dal nome del medico inglese che per primo la descrisse in un saggio del 1817, è una patologia neurodegenerativa cronica del sistema nervoso centrale, tipicamente caratterizzata dalla presenza di sintomi motori cardinali quali: 

  • bradicinesia (lentezza nei movimenti),
  • rigidità;
  • tremore
  • si associa instabilità posturale.

Il coinvolgimento, prevalentemente motorio della malattia, ne determina il suo usuale inquadramento tra i disordini del movimento.

La malattia di Parkinson colpisce in Italia circa 230.000 persone e si prevede che la prevalenza di tale patologia raddoppierà nel corso dei prossimi venti anni, a causa soprattutto del crescente invecchiamento della popolazione generale.

La malattia consegue principalmente alla mancata produzione della dopamina, come risultato della massiva degenerazione (oltre il 60% all’esordio dei sintomi motori) dei neuroni della pars compacta della substantia nigra mesencefalica, struttura situata nel tronco dell’encefalo.

Caratteristica propria della neuropatologia è relativa all’accumulo, specialmente dal punto di vista del livello della substantia nigra stessa, delle inclusioni filamentose nel citoplasma dei neuroni, chiamate corpi di Lewy, composte specialmente da aggregati di una proteina, quali la α-sinucleina, in forma alterata insolubile.

Parkinson

Cause Cause

La malattia di Parkinson è, essenzialmente, un disordine del controllo della motilità e per comprenderne la patogenesi è necessario fare un breve cenno sulla fisiopatologia del movimento e sulla funzione della dopamina.

Le strutture cerebrali, denominate gangli della base o corpo striato, esercitano una costante funzione inibitoria sull’attività del circuito motorio della corteccia cerebrale, allo scopo di impedire movimenti non finalistici, per cui, per poter effettuare un’azione volontaria, è necessario ridurne l’attività inibitoria. Ciò accade mediante la liberazione di dopamina, che è un mediatore chimico, che, in tal modo, consente l’esecuzione corretta dell’attività motoria, attraverso la sua azione di soppressione dell’inibizione, esercitata dal nucleo striato.

Nel caso in cui il livello di dopamina è basso, come si verifica nella malattia, vengono richiesti maggiori sforzi per compiere un dato movimento, ossia per vincere l’inibizione indotta dall’attività dei gangli. Da questo, si desume che l’effetto reale della deplezione di dopamina consiste in una riduzione globale di segnali motori (ipocinesia). La malattia di Parkinson è pertanto causata dal deficit dopaminergico conseguente alla degenerazione nigrostriatale, provocata dall’accumulo di questa proteina anomala (alfa-sinucleina) nei neuroni della substantia nigra.

La malattia di Parkinson, nella maggior parte delle volte, rappresenta una malattia idiopatica. Ciò vuol dire che non è conosciuta una causa specifica, anche se, circa il 15% dei soggetti affetti ha un parente di primo grado con la medesima patologia. 

In ogni caso, il Morbo di Parkinson non è ritenuta una malattia ereditaria. Salvo rari e particolari casi, la malattia non risulta essere trasmessa, in famiglia, dai genitori ai propri figli. Sono state identificate, tuttavia, alcune varianti, o mutazioni genetiche, che predispongono a sviluppare la patologia.

Ulteriori fattori sono stati legati al rischio di sviluppare la malattia. Ad esempio, è stato notato che molti pugili hanno sviluppato la malattia di Parkinson. Si pensa che questo sia dovuto ai traumi riportati al capo. A proposito di quanto detto, basti pensare al caso del celebre pugile Muhammad Alì, alias Cassius Clay Jr., il quale, già all’età di 38 anni, manifestò segni del Parkinson.

Sintomi Sintomi

L’attività del circuito motorio ne risulta fortemente inficiata: questo spiega la sintomatologia tipica della patologia, legata al movimento e costituita da:

  • tremori
  • rigidità
  • lentezza nell’attività motoria;
  • difficoltà a camminare.

Ai sintomi di tipo motorio, spesso, si correlano anche:

  • problemi neuropsichiatrici;
  • difficoltà sensoriali e del sonno;
  • disturbi a carico della componente simpatica del sistema nervoso autonomo.

Il sintomo più visibile, per il quale la patologia venne denominata anche “paralisi agitante”, è il tremore. Si tratta di un tremore “a riposo”, ovvero scompare durante i movimenti volontari, ma è altresì assente anche durante il sonno. Di solito, è a bassa frequenza e ricorda il movimento di contare le monete. Nelle prime fasi, è unilaterale, ma, successivamente, coinvolge anche l’altro lato. Nelle situazioni di stress emozionale, peggiora. Va specificato, poi, che, nel 30% dei casi, può non presentarsi all’esordio della malattia.

Un’ulteriore caratteristica della malattia è la bradicinesia, ovvero la lentezza dei movimenti e che, nelle prime fasi della malattia, è sicuramente il sintomo maggiormente invalidante, in quanto rende difficile eseguire tutte quelle attività quotidiane, per le quale è richiesto un controllo preciso della motilità. Pensiamo, ad esempio, ad azioni come scrivere o vestirsi.

La mancata modulazione dell’attività inibitoria dei gangli sul circuito motorio, si traduce in una contrazione eccessiva e continua dei muscoli, che conferisce una rigidità ed una resistenza al movimento passivo degli arti, che può essere uniforme (a “tubo di piombo”) o a scatti (“a ruota dentata”).

Il disturbo dell’andatura, in genere, si manifesta negli stadi finali della malattia. Si caratterizza per una deambulazione che avviene, tipicamente, a piccoli passi, strisciati. Di solito, si verifica il cosiddetto fenomeno della “destinazione”, ovvero una graduale accelerazione, con postura flessa (camptocormia), quasi ad inseguire il proprio centro di gravità. Ciò implica disturbi dell’equilibrio e frequenti cadute, che possono causare fratture ossee. Sintomo patognomonico è il cosiddetto freezing (congelamento), ovvero i piedi che rimangono come incollati al pavimento. Ciò è dovuto alla perdita completa dell’automatismo alla base dell’inizio della marcia.

Ai sintomi fondamentali, che sono stati appena descritti, si associa una vasta gamma di altri sintomi motori, di cui si citano quelli maggiormente ricorrenti: 

  • amimia (scomparsa dei movimenti mimici istintivi);
  • disfagia (disturbi della deglutizione);
  • bradilalia (linguaggio lento e monotono);
  • micrografia (la scrittura che tende a rimpicciolirsi).

Malgrado nella malattia di Parkinson si enfatizzi la sintomatologia motoria, sono tuttavia presenti, nella progressione della patologia, e talvolta anche nella fase che precede l’esordio del disturbo motorio, anche sintomi non motori, che possono divenire rilevanti nelle fasi più avanzate, assumendo un ruolo determinante sulla disabilità e sulla qualità della vita, anche in considerazione della scarsa responsività alla terapia con L-dopa.

I sintomi non motori sono costituiti da:

  • deficit olfattivo e disordini del sonno (REM sleep Behaviour Disorder – RBD);
  • la depressione e la stipsi possano essere presenti anche prima dei disturbi motori;
  • disordini neuropsichiatrici (apatia, depressione e ansia, anedonia, deficit attentivo, allucinazioni e psicosi, comportamenti ripetitivi e ossessivi);
  • disturbi del controllo degli impulsi (bulimia, ipersessualità, ludopatia);
  • sintomi disautonomici (disturbi della salivazione, ipotensione ortostatica, disfunzione erettile o impotenza, eccessiva seborrea e sudorazione, incontinenza urinaria e xeroftalmia cioè secchezza degli occhi);
  • cognitivi.

Nell’ambito cognitivo, è caratteristico che, per un disturbo nel processo dell’attenzione, i malati fanno fatica a seguire una conversazione lunga e, per l’insorgenza di problemi visuo-spaziali, hanno difficoltà a giudicare la distanza degli oggetti.

Tutti questi sintomi possono anticipare anche di anni la diagnosi della malattia.

Diagnosi Diagnosi

Nelle prime fasi di malattia, è alquanto difficile stabilire se un paziente soffra di Malattia di Parkinson Idiopatica (MPI) oppure di un parkinsonismo atipico, come la Paralisi Supranucleare Progressiva (PSP), l’Atrofia Multisistemica (MSA), la demenza a corpi di Lewy (LBD), oppure la Degenerazione Cortico-Basale (CBS), che condividono la degenerazione del circuito nigrostriatale con la malattia di Parkinson idiopatica, che statisticamente rappresenta la forma più frequente di parkinsonismo.

Esistono poi altre sindromi parkinsoniane, che possono conseguire a trattamento con farmaci antidopaminergici (parkinsonismo indotto da farmaci), a un quadro di coinvolgimento cerebrovascolare sottocorticale (parkinsonismo vascolare), a patologie metaboliche, infettive, infiammatorie o altre patologie degenerative.

Al fine di rendere standard e sistematizzare la diagnosi relativa al Parkinson, sono stati quindi elaborati, nell’ambito della ricerca, appositi criteri diagnostici. La loro applicazione può essere d’aiuto a uniformare il percorso diagnostico, soprattutto nelle fasi iniziali della malattia, ovvero allorquando la diagnosi risulta maggiormente incerta ed è, quindi, necessario prendere decisioni di rilievo, relative al trattamento ella gestione dei sintomi. I due criteri utilizzati con maggiore frequenza sono quelli elaborati dalla UK Parkinson’s Disease Brain Bank1 e i criteri di Gelb2.

La diagnosi avviene con l’ausilio di un’anamnesi accurata, sulla base di questi due criteri e con un grado più o meno elevato di probabilità. La probabilità aumenta, ovviamente, con il passare del tempo, in quanto, normalmente, via via che la malattia progredisce, la sintomatologia si presenta sempre più marcatamente e, di frequente, anche più differenziata. La risposta alla terapia, inoltre, è diversa.

Ad esempio, nella MSA, vi è scarsa o mancata risposta alla levodopa, associata a un disturbo autonomico più marcato. Allo stesso modo, la PSP viene ritenuta probabile se, nel primo anno dopo l’esordio della malattia parkinsoniana, si verificano sia una paralisi verticale dello sguardo, che un vistoso disturbo dei riflessi posturali. Ciò associato a conseguenti cadute ed una insorgenza precoce di disturbi della deglutizione, della parola e cognitivi. Questi disturbi, come enunciato precedentemente, si riscontrano anche nella malattia idiopatica di Parkinson, ma generalmente compaiono solo più avanti nel decorso e con un’intensità inferiore.

Il criterio diagnostico odierno, per differenziare tra Parkinson e Parkinsonismi, e per impostare il corretto trattamento, resta pur sempre quello clinico, ma è supportato da indagini strumentali quali:

  • la Risonanza magnetica nucleare ad alto campo
  • la scintigrafia cerebrale recettoriale SPECT (DATscan)
  • la PET cerebrale;
  • la scintigrafia del miocardio con 123 I-MIGB, per la valutazione della funzionalità simpatica nei parkinsonismi.

La scintigrafia cerebrale recettoriale con Datscan è l’ultima frontiera della medicina nucleare e permette di capire se i disturbi dei movimenti, quali tremore e bradicinesia, siano causati da un danno ai nuclei della base o da un altro tipo di problema. Comunque, nella pratica clinica, nel percorso diagnostico di qualunque disturbo parkinsoniano, è eseguita una Risonanza Magnetica cerebrale, che consente, tra l’altro, di individuare alterazioni del tronco cerebrale, che sono caratteristiche delle altre forme di sindromi parkinsoniane. 

Talora si effettua un test farmacologico, somministrando levodopa o apomorfina: se il paziente è affetto da un parkinsonismo atipico da MSA o da PSP, l’attenuazione dei sintomi parkinsoniani è nettamente peggiore che se si tratta di Parkinson idiopatico.

Va in ogni modo detto che nel caso della malattia di Parkinson, a tutt’oggi, la definizione neuropatologica è l’unica possibilità di definizione diagnostica della malattia e, quindi, l’unico standard di riferimento adeguato (gold standard) per la valutazione dell’accuratezza di qualsiasi altro criterio clinico o strumento diagnostico utilizzato. Per questo, l’unica prova certa è data, esclusivamente, dal rilievo post-mortem, ossia mediante esame autoptico, dei corpi di Lewy nel mesencefalo. Per questa ragione, le linee guida consigliano di rivalutare periodicamente la diagnosi, poiché dalla progressione della malattia possono emergere quegli elementi clinici, che consentono di identificarla correttamente.

Rischi Rischi

Un individuo affetto da malattia di Parkinson è esposto al rischio di ammalarsi di demenza, da 2 a 6 volte maggiore rispetto alla popolazione in generale. Il rischio della demenza aumenta di pari passo con il decorso della malattia. Ciò, inoltre, comporta un aumento della mortalità e una maggiore probabilità che diventi necessaria un’assistenza continua da parte di caregivers.

Nel 4% dei pazienti, si manifestano sintomi psicotici, quali allucinazioni e deliri, che tendono ad aumentare con l’avanzare dell’età e con l’assunzione di levodopa.

La morte da polmonite ab ingestis, legata ai disturbi della deglutizione, si verifica due volte di più negli individui affetti da malattia di Parkinson, rispetto al resto della popolazione sana.

Cure e Trattamenti Cure e Trattamenti

La malattia di Parkinson è caratterizzata principalmente dall’insorgenza di disturbi del movimento, ma, come è stato esposto, la sintomatologia motoria è anche associata a sintomi non motori, presenti, inevitabilmente, durante la progressione naturale della malattia, e talvolta anche nella fase che precede l’esordio del disturbo motorio. I sintomi non motori possono divenire rilevanti nelle fasi avanzate, divenendo determinanti sulla disabilità e la qualità della vita, anche in considerazione della scarsa responsività alla terapia con L-dopa.

La terapia farmacologica, inoltre, appare efficace nel migliorare solo alcuni dei sintomi del Parkinson, peraltro perdendo efficacia con l’avanzare della condizione, e mostrandosi scarsamente utile nel modificare taluni sintomi, rappresentati dai disturbi del linguaggio, dalla rigidità assiale, dall’alterazione della postura, del cammino e della stabilità posturale. Attualmente, non esiste un trattamento risolutivo, capace sia di migliorare la degenerazione che fermare la progressione di malattia. I trattamenti terapeutici adottati hanno, quindi, una efficacia sintomatica, che ha lo scopo di controllare la sintomatologia, senza capacità di interferire, modificandola, con il decorso della malattia.

La risposta alla terapia è valutata sulla base delle diverse scale validate, che considerano ogni sintomo o gruppo di sintomi. La scala di valutazione più utilizzata, per descrivere la condizione funzionale globale del paziente, al momento della osservazione clinica, suscettibile di modificazione, a seconda che la terapia sia efficace o no (stato on e off), è la Unified Parkinson’s Disease Rating Scale (UPDRS). Essa, nelle prime tre sezioni, indaga aspetti cognitivi, comportamentali e psichici, autonomia nelle attività della vita quotidiana, e disabilità motoria, analizzando singolarmente i sintomi e segni caratteristici della malattia.

La scala più utilizzata, per definire lo stadio di malattia, è quella di Hoehn e Yahr (H&Y), a cinque stadi con l’aggiunta degli stadi intermedi 1,5 e 2,5 dove 1 indica un semplice coinvolgimento unilaterale e 5 un paziente costretto a letto o sulla sedia a rotelle. La scala Schwab and England (S&E) fornisce una ulteriore definizione dell’autonomia quotidiana del paziente.

Nella fase in cui la patologia ha già sviluppato qualche disabilità, il farmaco usato principalmente è la levodopa (L-DOPA). Il trattamento dei sintomi motori si contraddistingue da fluttuazioni, con periodi di buona risposta al farmaco e lievi sintomi (fase on), e periodi con nessuna risposta al trattamento e sintomi motori significativi (fase off).

Le statistiche indicano che, nel 40-50% dei casi, le fluttuazioni motorie si presentano dopo cinque anni di trattamento. La levodopa diminuisce in modo temporaneo i sintomi motori, ma è responsabile, a lungo termine, in una percentuale che va dal 30 all’80% dello sviluppo di complicanze motorie, caratterizzate da movimenti involontari (discinesie), talvolta anche gravi, tanto da interferire consistentemente con quotidianità.

L’orientamento attuale, al fine di evitare questi effetti, è quello di ritardare l’utilizzo della levodopa e di mettere in atto, in primis, un trattamento farmacologico con gli agonisti della dopamina (bromocriptina, pergolide, pramipexolo,etc.) che, anche se meno efficaci della L-DOPA, si legano ai recettori dopaminergici del cervello. Di recente, sono stati trovati due agonisti della dopamina, che vengono somministrati attraverso cerotti (lisuride e rotigotina) e risultano essere utili in quei pazienti nello stadio iniziale della patologia.

Nelle fasi iniziali della malattia, e per ritardare la necessità di assumere levodopa, vengono utilizzati, pure in monoterapia, gli inibitori della monoamino-ossidasi (selegilina e rasagilina), capaci di aumentare il livello di dopamina nei gangli della base, bloccandone il metabolismo.

Quando la malattia è caratterizzata da uno stadio Hoehn e Yahr avanzato, e non viene più adeguatamente controllata dai farmaci esposti sopra, vi è necessità di ricorrere a terapie più complesse, quali l’apomorfina, il più potente tra i dopamino-agonisti (molecole che stimolano direttamente i recettori dopaminergici), che consente la riduzione della durata delle fasi di blocco motorio e dell’intensità delle ipercinesie, che può essere erogata mediante un dispositivo elettronico di ultima generazione, che permette anche il monitoraggio dell’aderenza al trattamento.

Negli ultimi tempi, gli studi si stanno orientando su differenti categorie farmacologiche; una linea di ricerca sta puntando sugli anticorpi monoclonali, con l’obiettivo di combattere l’accumulo delle proteine, l’alfa-sinucleina, per aumentare la disponibilità di dopamina, riducendone il catabolismo attraverso l'inibizione di uno degli enzimi di degradazione, la monoamino ossidasi (MAO). Gli inibitori delle MAO, I-MAO, disponibili in commercio sono selegilina e rasagilina.

Altre recenti ricerche, in fase preclinica, puntano sulla capacità di una terapia genica di ripristinare l’effetto della levodopa, attraverso tecniche di ingegneria genetica, per indurre la produzione del neurotrasmettitore GABA deficitario, nel cervello dei pazienti affetti da malattia di Parkinson.

In questo ambito, uno studio pubblicato a novembre dello scorso anno su Nature ha aggiunto dei tasselli di conoscenza in più. Un gruppo di ricercatori - della Northwestern University di Chicago, del Weill Cornell Medical College di New York e dell’università di Siviglia – ha infatti dimostrato, in un modello animale, di poter ripristinare l’effetto della levodopa – farmaco di elezione per il trattamento della malattia, ma che perde, negli anni, la sua efficacia – grazie a una terapia genica. Inoltre, ha dimostrato come il danno dei mitocondri nei neuroni che rilasciano la dopamina possa innescare i primi eventi del Parkinson. Tutte informazioni che possono aprire la strada allo sviluppo di nuove terapie.

Esistono anche altre modalità di terapia del Parkinson:

  • terapia chirurgica: come la Deep Brain Stimulation (DBS) o stimolazione cerebrale profonda, che consiste nell’impianto di un dispositivo (pacemaker cerebrale), il quale invia impulsi elettrici a zone specifiche del cervello. L’intervento è attuabile solo se il paziente, oltre a non avere età superiore ai 65-70 anni, non abbia compromissione delle funzioni cognitive, persistenza in fase “on” di “freezing” della marcia ed instabilità posturale. C'è poi anche l'intervento lesionale. Si tratta di un posizionamento di un elettrodo nel cervello, con tecnica di chirurgia stereotassica, per produrre lesioni in specifici settori sottocorticali (il talamo, il globo pallido o il nucleo subtalamico);
  • infusioni di farmaci dopaminergici: il trattamento delle fasi avanzate della malattia si rivolge specialmente al controllo del deterioramento dei sintomi motori, delle complicanze motorie generate dal trattamento prolungato e di tutti gli eventuali sintomi non motori, legati al progredire della malattia e agli effetti collaterali farmacologici. Per incrementare e facilitare l’assorbimento della L-dopa a livello intestinale, sono state sperimentate anche formulazioni di L-dopa gel, da somministrare per via intra-duodenale o intra-digiunale, che è rappresentata dall’infusione di Duodopa. È la levodopa (+carbidopa), in una formulazione in gel per infusione, che viene somministrata direttamente nell’intestino, attraverso una PEG (Gastrostomia Percutanea Endoscopica), al cui interno si inserisce un sondino (PEJ), che raggiunge il digiuno. Il farmaco viene infuso tramite un dispositivo esterno, con una velocità di infusione regolata a seconda del livello di controllo della sintomatologia. Questo permette di migliorare nettamente l’assorbimento del farmaco e quindi la sua efficacia, con il conseguimento di un buon controllo della sintomatologia. Tale trattamento non prevede limiti di età per il paziente.

Al termine di questa breve esposizione, circa le possibilità terapeutiche farmacologiche e chirurgiche, si ritiene utile fornire un cenno su ulteriori possibili trattamenti, nonché sulle tecniche di riabilitazione e di prevenzione della malattia di Parkinson. Tra questi, troviamo:

  • altri trattamenti: è, tuttora, argomento di studio l’utilità della stimolazione magnetica transcranica sulla discinesia indotta dalla levodopa;
  • interventi dietetici: vari principi nutritivi, come la Mucuna Pruriens (che è un legume che cresce nei Paesi tropicali) e la Vicia Faba o Atremorine (fava comune) rappresentano fonti naturali di levodopa e sono stati proposti come possibili trattamenti. Alla luce di alcuni studi clinici, è stato dimostrato un possibile effetto protettivo del coenzima Q10 (a dosi da 300 mg/ dì fino a 2.400 mg/dì) sul sistema dopaminergico nigrostriatale, in pazienti con malattia di Parkinson allo stadio iniziale o di moderata gravità. Gli omega-3 sono acidi grassi essenziali, non sintetizzabili dall’organismo umano, ma essenziali per il metabolismo, la cui principale fonte è l’olio di pesce. Uno studio randomizzato ha evidenziato la possibile utilità ed efficacia degli omega 3 come trattamento o terapia coadiuvante nella depressione in corso di malattia di Parkinson;
  • trattamenti neuro protettivi: è stata posta sotto osservazione l’efficacia di alcuni composti chimici, come fattori neuro protettivi della malattia di Parkinson, tra questi la caffeina, che, ad un consumo medio quotidiano di 296 mg (una tazzina corrisponde a 50 mg), sembra associarsi ad una forma più lieve di malattia. L’utilizzo del tocoferolo, un componente biologicamente attivo della vitamina E, nel rallentare il declino funzionale o nel migliorare i tratti clinici della malattia di Parkinson, della vitamina D, di integratori, di composti vitaminici e di antiossidanti non hanno fornito secondo i dati della Letteratura prove tali da incoraggiare l’uso di tali prodotti nella terapia della fase iniziale o avanzata della malattia di Parkinson; 
  • riabilitazione: un esercizio fisico regolare, insieme a tecniche di rilassamento, svolti sotto la supervisione di personale esperto di fisioterapia, possono rivelarsi utili per diminuire l’eccessiva tensione muscolare e migliorare la mobilità, la flessibilità, la forza e la velocità di andatura. Per esempio, la contrattura asimmetrica di alcuni muscoli, che modifica il baricentro dell'individuo, induce abbastanza spesso un atteggiamento posturale della colonna vertebrale, che è inclinata e tende a sbilanciare il soggetto. Viene anche denominato la sindrome di Pisa. La migliore terapia correttiva consiste nella fisioterapia in acqua, perché l’acqua rimuove il carico, permettendo di lavorare meglio sui muscoli coinvolti. Inoltre, a causa della postura flessa in avanti e delle disfunzioni respiratorie, presenti nella fase avanzata della malattia, trovano utile indicazione gli esercizi di respirazione profonda diaframmatica. La logopedia, infine, può migliorare i disturbi del linguaggio associati al morbo di Parkinson.

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