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Infarto miocardico

Dr. Alfredo Macchiusi

Dr. Alfredo Macchiusi

Cardiologo Medico Chirurgo, specialista in Cardiologia Creato il: 01/07/2017 Ultimo aggiornamento: 14/11/2023
Con il termine infarto miocardico si indica la morte (necrosi) di una parte di cellule del muscolo del cuore, conseguente ad una prolungata ischemia. Tale condizione è causata da uno sbilanciamento tra le richieste del metabolismo ed il sostegno di sangue all’organo.
 
Infarto miocardico

Cause Cause

L’infarto miocardico è causato, in genere, dall’ostruzione delle coronarie (arterie incaricate di portare il sangue al muscolo cardiaco). Tale ostruzione può essere totale o parziale, ed è provocata dalla formazione di un trombo al suo interno. Quest’ultimo, di norma, si sviluppa quando, improvvisamente, si rompe una placca aterosclerotica, che si sviluppa lentamente all’interno di una coronaria. La lesione ulcerata di tale placca fa in modo che le piastrine si aggregano e che si produca un coagulo, che espandendosi arriva ad ostruire il vaso. Il flusso di sangue, in questo modo, viene limitato o interrotto.

In altri casi, l’infarto può derivare anche da:

  • grave anemia;
  • insufficienza respiratoria;
  • aritmie avanzate;
  • brusche variazioni di pressione;
  • uno spasmo della coronaria.

L’aterosclerosi, inoltre, progredisce in base a diversi fattori di rischio, che si possono distinguere in non modificabili e modificabili.

Tra i primi rientrano:

  • familiarità: vi è maggior rischio in coloro che hanno familiarità con soggetti colpiti da infarto, soprattutto nel caso questo si sia presentato prima dei 60 anni); 
  • età: il rischio di contrarre un infarto, con l’avanzare degli anni, aumenta gradualmente. Per gli uomini, soprattutto dopo i 45, mentre per le donne dopo i 55; 
  • sesso maschile: in genere, gli uomini sono più a rischio rispetto alle donne. Per le seconde, il rischio aumenta solitamente dopo la menopausa.

I fattori di rischio modificabili, invece, includono:

  • diabete mellito
  • dislipidemie
  • ipertensione arteriosa
  • fumo
  • sovrappeso: il rischio risulta maggiore nelle condizioni di obesità “androide” in cui la massa adiposa è localizzata a livello addominale; 
  • sindrome metabolica.

Esistono poi fattori di rischio meno noti e solo più recentemente inquadrati, ma altrettanto importanti:

  • aumento della Lipoproteina(a);
  • iperfibrinogenemia
  • iperomocisteinemia
  • iperinsulinemia
  • sindrome da anticorpi antifosfolipidi
  • sedentarietà;
  • stress;
  • uso di sostanze stupefacenti.

Sintomi Sintomi

L’infarto miocardico si manifesta, in genere, con il dolore al petto, tuttavia tale dolore può presentarsi in vari modi, con caratteristiche tra loro eterogenee. Può risultare varie volte come “tipico” probante o, in altri casi come “atipico”, in una modalità difficilmente correlabile con l’attacco di cuore. Al fine di discernere una sintomatologia specificatamente suggestiva di infarto bisogna, in primis, considerare alcuni fattori:

  1. localizzazione: generalmente, può essere retrosternale o precordiale. Si irradia lungo il collo, la mandibola, fino all’epigastrio, ad entrambe le braccia o, nella maggior parte dei casi, lungo il braccio sinistro; 
  2. qualità: tipicamente può essere o oppressivo o costrittivo; 
  3. durata: in genere prolungato, oltre 20-30 secondi; 
  4. fattori che lo modificano: non risente dei cambiamenti di posizione, degli atti del respiro o dell’assunzione di nitrati sublinguali; 
  5. segni o sintomi associati: dispnea, sudorazione, nausea o vomito.

Date tali circostanze, si possono suddividere degli score di rischio che, mediante un punteggio CPS (Chest Pain Score), segnalano una maggiore o minore probabilità che lo spasimo sia legato ad un’ischemia miocardica. Un CPS minore di 6 corrisponde a un dolore atipico per cardiopatia ischemica acuta, un CPS maggiore o uguale a 6 corrisponde a un dolore tipico per angina.

Diagnosi Diagnosi

Sebbene la sintomatologia sia il primo parametro ad orientare la diagnosi, per avere una conferma, vi è bisogno di sottoporre il paziente a degli esami strumentali.

Al fine di evidenziare alterazioni specifiche, è utile anche effettuare un ECG. Queste alterazioni possono essere contraddistinte dal “sopraslivellamento del tratto ST” (definito con acronimo anglofono STEMI, tipico dell’occlusione totale della coronaria) o, in altri casi, non essere caratterizzate dal classico sopraslivellamento, ma che tuttavia possono essere comunque diagnostiche (in tali casi si parla di NSTEMI, espressione di ostruzione coronarica parziale).

Bisogna, tuttavia, notare che una notevole percentuale di infarti, all’esordio, si presenta normale dal punto di vista elettrocardiografico. In queste circostanze, vi è la necessità di fare un’integrazione diagnostica con prelievi di laboratorio, al fine di rilevare alterazioni dei markers di necrosi miocardica (attualmente le Troponine) o test di imaging, come l’Ecocardiogramma. Quest’ultimo test è capace di mostrare precocemente alterazioni del movimento delle pareti del cuore, secondarie all’ischemia.

Rischi Rischi

Ancora oggi l’infarto rappresenta un disturbo grave, spesso fatale. Quanto più tardi il paziente si presenta in ospedale, tanto più sussiste il pericolo di mortalità. Prima il paziente si presenta presso una struttura ospedaliera, prima sarà possibile intervenire con strategie per il trattamento delle complicanze potenzialmente fatali e si potrà praticare una veloce riperfusione delle coronarie, al fine da evitare che la necrosi si dirami ad una maggiore porzione di miocardio.

Le più frequenti complicanze dell’infarto in fase acuta, che possono essere estremamente gravi, sono le aritmie, dalla fibrillazione ventricolare - che, se non interrotta subito può provocare arresto cardiaco - fino alle bradicardie, anche marcate. Tali aritmie possono aver bisogno di impianto pace-maker urgente.

Un probabile rischio è rappresentato anche dallo scompenso cardiaco acuto o, nei casi più gravi, dallo shock cardiogeno.

Cure e Trattamenti Cure e Trattamenti

La strategia ottimale di trattamento dell’infarto miocardico prevede la riapertura, quanto più precoce possibile, della coronaria che si è occlusa. La fase di tempo risparmiato tra l’inizio dei sintomi e la disostruzione dell’arteria è fondamentale, al fine di trarre un maggior guadagno in benefici per il muscolo cardiaco. È importante che il cuore venga salvato prima di essere danneggiato in modo esteso e irreversibile.

Al fine di perseguire tale scopo, sarà necessario intervenire mediante una angioplastica coronarica. Questo intervento si realizza introducendo, da un’arteria periferica (normalmente del polso o più raramente dell’inguine) fino alla coronaria responsabile dell’infarto, un catetere dotato alla sua estremità di palloncino gonfiabile. Il catetere viene spinto attraverso il coagulo e gonfiato, così da riaprire il vaso. Allo stesso tempo si posiziona sulle pareti dell’arteria una piccola protesi a rete (stent) al fine di rappresentare un ausilio nella sua apertura dopo la disostruzione.

Negli ospedali in cui non si può effettuare un’angioplastica rapidamente, se vi è la necessità di riaprire una coronaria completamente occlusa, si potrà intervenire attraverso la somministrazione endovenosa di farmaci che dissolvono il coagulo. Questi farmaci, detti trombolitici, hanno un effetto meno quantificabile rispetto all’angioplastica e rischiano di generare emorragie anche gravi.

Vengono quasi sempre somministrati, in fase acuta, al paziente affetto da infarto miocardico, anche farmaci come: 

  • anticoagulanti;
  • antiaggreganti (tra i quali aspirina e altri inibitori piastrinici);
  • beta bloccanti;
  • ACE inibitori;
  • statine.

Anch’essi generano beneficio maggiore, quanto più rapidamente comincia la loro somministrazione.

Sebbene rimanga una grave patologia, se prontamente riconosciuta e trattata con tempestività, l’infarto può non lasciare alcun segno a livello clinico. Dopo una mirata riabilitazione, inoltre, il paziente potrà tornare a svolgere le attività quotidiane. Dovrà, tuttavia:

  • adottare e mantenere uno stile di vita sano e regolare;
  • minimizzare i fattori di rischio;
  • sottostare alla terapia prescritta dal medico;
  • sottoporsi a regolari controlli cardiologici.

Bibliografia

  • Boersma, Eric, et al. "Acute myocardial infarction." The Lancet 361.9360 (2003): 847-858.
  • Reed, Grant W., Jeffrey E. Rossi, and Christopher P. Cannon. "Acute myocardial infarction." The Lancet 389.10065 (2017): 197-210.
  • Infarto miocardico. www.salute.gov.it

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