Il gioco d’azzardo nella storia

Il gioco d’azzardo, sebbene da millenni faccia parte delle attività umane, rappresenta oggigiorno un fenomeno sociale e culturale in progressiva espansione. Studi antropologici hanno ipotizzato che la sua primitiva funzione fosse quella di sondare o indirizzare il Fato; una sorta di pratica magica che mitigasse le angosce relative all’imperscrutabile e all’imprevedibile e consentisse di prevedere o preordinare il caso. Nell’Antichità, quindi, l’esito casuale di un tiro di dadi o di un equivalente serviva ad esempio a regolare lo scambio di proprietà, a dirimere dispute o scegliere i candidati per determinati compiti.

Illustrazione 1 - Psichiatria

Accanto a questa funzione politica, l’azzardo non ha mai perso la sua natura di gioco, capace di divertire e creare quel mondo altro – transizionale, per dirla con Winnicott – in grado di “drammatizzare, rappresentare, comunicare, scaricare le proprie fantasie inconsce” e di “elaborare e modulare l’ansia e le angosce connesse con queste fantasie.” Il gioco – e le cronache di questi anni sono colme di esempi paradigmatici – è tuttavia capace di trasformarsi da attività ludica lenitiva delle paure umane, in passione irrefrenabile e compulsiva, impossibilitata a essere contenuta entro limiti definiti e rapidamente divorante e allagante nei confronti di tutti gli altri ambiti della vita.

Forse, proprio in conseguenza di questa natura bifronte, l’etica occidentale ha operato una sorta di scissione sul gioco d’azzardo, distinguendo un gioco buono, quello le cui finalità (i profitti) sono ethically correct (la beneficenza, l’erario statale) e un gioco cattivo, che è invece relegato alla clandestinità e alla criminalità.

Allo stesso modo una scissione ha colpito la figura del giocatore, dipinto sia con quelle tinte di ammirazione che si usano nei confronti di coloro che “vanno incontro al Fato, anziché attenderlo o evitarlo”, ma anche con le tinte ben più fosche dell’immoralità e del sacrilegio.

Alla fine del XIX secolo il gioco d’azzardo, dopo essere stato per secoli territorio di competenza religiosa (il gioco è peccato) o del diritto (il gioco è reato), è iniziato a divenire fenomeno di interesse sanitario (il gioco, se compulsivo, è malattia). Questo avvicinarsi alla Medicina si iscriverebbe, a seconda degli autori, all’interno di una doppia dinamica: da un lato, in seguito alla tendenza nei paesi occidentali alla medicalizzazione di tutti gli aspetti della vita dei cittadini, utile sia a “spiegare, che a generare un problema”. D’altro canto avveniva in quegli anni una progressiva statalizzazione del gioco d’azzardo, con l’apertura dei primi casinò, che inevitabilmente sollevava una serie di questioni legate all’etica di un cosiddetto “Stato-croupier”, alle ricadute economiche positive nei confronti delle casse statali, ma anche alle ricadute economiche negative legate agli effetti della compulsione da gioco (assenteismo sul lavoro, problemi familiari e finanziari dei giocatori, la criminalità sotto forma di usura, il rischio suicidario).
 

Le dipendenze in ambito medico

L’alcolismo è stata la prima dipendenza ad essere accettata all’interno del modello medico, secondo i criteri kraepeliniani relativi alle malattie mentali; ciò avvenne a partire dagli anni ’50, con l’avvallo dell’American Psychiatric Association, anche se già “due secoli prima il padre della psichiatria Benjamin Rush, aveva catalogato l’alcolismo come una patologia”. A sua volta, seppur di gioco compulsivo si parli dai primi del Novecento, esso è stato riconosciuto definitivamente come una patologia a sé stante nel 1980, quando l’A.P.A. lo introdusse nella III versione del DSM, classificandolo nella categoria dei Disturbi del Controllo degli Impulsi. Attualmente il DSM-IV (1994) lo definisce come un comportamento “persistente e ricorrente" come indicato da cinque (o più) dei seguenti criteri:
  • è eccessivamente assorbito dal gioco d’azzardo;
  • ha bisogno di giocare d’azzardo con quantità crescenti di denaro per raggiungere l’eccitazione desiderata;
  • ha ripetutamente tentato con insuccesso di controllare, ridurre o interrompere il gioco d’azzardo,
  • è irrequieto o irritabile quando tenta di ridurre o interrompere il gioco d’azzardo;
  • gioca d’azzardo per sfuggire a problemi o per alleviare ad un umore disforico;
  • dopo aver perso denaro al gioco, spesso torna un altro giorno per giocare ancora (“rincorrendo” le proprie perdite);
  • mente ai familiari, al terapista o ad altri per nascondere l’entità del proprio coinvolgimento nel gioco;
  • ha commesso azioni illegali per finanziare il gioco d’azzardo;
  • ha messo a repentaglio o ha perso una relazione significativa, il lavoro o opportunità scolastiche o di carriera per il gioco d’azzardo;
  • fa affidamento sugli altri per reperire denaro o per alleviare una situazione finanziaria disperata causata dal gioco d’azzardo.
 

Epidemiologia

Gli studi epidemiologici relativi al gioco d’azzardo patologico iniziarono negli anni ’70, con i lavori pionieristici di Robert Custer; egli calcolò che in quegli anni la presenza negli Stati Uniti di giocatori definibili come patologici fosse da 1 a 3 milioni.

Volberg (1994) ha mostrato come la prevalenza dei problemi legati al gioco d’azzardo sia strettamente correlata con il numero delle opportunità di gioco offerte dallo Stato e con il numero di anni di esposizione della popolazione al gioco legalizzato. Entrambi questi valori sono in continua crescita, tanto che si è calcolato che gli adulti che abbiano giocato d’azzardo almeno una volta nella loro vita siano fra l’80% e il 94% degli inglesi, fra il 24% e il 64% degli americani e fra l’81% e il 92% degli australiani. In Italia le persone che abitualmente giocano a qualche forma di azzardo sarebbero circa il 60% dell’intera popolazione.

I più recenti dati internazionali definiscono un tasso di prevalenza di gioco d’azzardo patologico compreso fra l’1% e il 3%. Per questa patologia sono stati osservati alcuni fattori di rischio demografici. Essi includono:
  • il sesso maschile (circa 2:1);
  • il basso livello socioeconomico e culturale;
  • l’essere non sposati;
  • l’età giovanile (anche se l’esposizione al gioco d’azzardo è maggiore in età adulta).
Illustrazione 2 - Psichiatria

Inoltre, numerose ricerche hanno messo in evidenza la presenza di legami con specifici tratti di personalità e un aumento di presenza comorbile di alcune patologie sia psichiatriche, che, in misura più limitata, mediche. In particolare, il gioco patologico è stato associato ad una maggiore impulsività, a una più spiccata tendenza alla ricerca di novità (novelty-seeking) e al discontrollo dell’aggressività. Inoltre, si è cercato di stabilire un legame eziopatogenetico fra gioco patologico e Disturbi Ossessivi, inserendolo all’interno del cosiddetto Spettro dei Disturbi Ossessivi-Compulsivi; così come esso è stato associato ai problemi legati a Deficit di Attenzione e ai Disturbi dell’Umore.

Nel giocatore patologico è stata dimostrata una maggiore presenza comorbile di:
  • depressione;
  • ansia generalizzata;
  • abuso o dipendenza da sostanze stupefacenti e da alcol;
  • problemi della condotta alimentare;
  • cosiddette nuove dipendenze (internet, acquisti, lavoro, etc.).

Infine, una associazione riportata da diversi autori è quella fra gioco patologico e ideazione suicidaria.
 

“Tipi” diversi di giocatori


In materia di gioco d’azzardo patologico non esiste consenso, non solo a livello delle definizioni o dei modelli eziopatogenetici o terapeutici, ma nemmeno sul riconoscimento della patologia in quanto tale. Pur essendo catalogata nel DSM, per alcuni autori esso sarebbe solamente un artefatto, ossia “l’estremità di una curva di Gauss, laddove, se è ammesso che la maggior parte della popolazione non gioca, sarebbe normale avere da un’estremità della curva una minoranza di astinenti primari (coloro cioè che non hanno mai giocato) o secondari (coloro che hanno smesso); così come dall’altra estremità avere un’altra minoranza di persone che giocano in eccesso”.

Alcuni autori hanno tentato di definire e classificare diversi tipi di giocatori, al fine di sistematizzare una categoria di persone estremamente eterogenea. Croce (2001) ci ricorda come “il primato di un’attenzione medico-scientifica al giocatore d’azzardo” spetti a Gerolamo Caramanna, allievo di Cesare Lombroso, che già nel 1898 aveva distinto tre tipologie di giocatori:
  • giocatori occasionali, che sarebbero i più;
  • giocatori per professione, che agirebbero per brama di denaro;
  • giocatori per passione, quelli che sarebbero coinvolti da una “voluttà speciale”, ricercando “il gioco per il gioco” (Dostoevskij), mossi da un istinto innato.
Esisterebbero perciò, così come i delinquenti nati, i giocatori nati. Moran (1970) rifiutò di definire i giocatori patologici come compulsivi, poiché, così come aveva già sottolineato Fenichel (1945), non sarebbero soddisfatti i criteri di Lewis (1936), secondo il quale un comportamento è compulsivo solamente laddove è percepito come egodistonico e vi sia un tentativo cosciente di contrastarlo. Entrambe queste caratteristiche sono per lo più assenti nei giocatori patologici. Moran distinse cinque varietà cliniche di giocatori patologici, frutto della diversa mescolanza fra fattori costituzionali e pressioni sociali:
  • varietà subculturale, nella quale le pressioni sociali sarebbero maggiori dei fattori temperamentali;
  • varietà nevrotica, nella quale vi sarebbe un uso strumentale del gioco, in funzione di automedicamento nei confronti di un problema emozionale;
  • varietà impulsiva, che è la categoria più simile a quella del DSM e nella quale la caratteristica di discontrollo degli impulsi è prevalente;
  • varietà psicopatica, laddove il gioco d’azzardo è solamente un epifenomeno di una personalità disturbata;
  • varietà sintomatica, nella quale il gioco è un sintomo di una malattia mentale (mania, depressione, schizofrenia, etc.).

Illustrazione 3 - Psichiatria

Uno dei maggiori studiosi di gioco d’azzardo patologico, Robert Custer (1985), ha a sua volta descritto sei varianti di giocatori d’azzardo, utilizzando come criterio selettivo la diversa finalità che il giocare assume nelle varie subpopolazioni:
 
  • giocatori professionisti, che sarebbero attualmente particolarmente rari, ma che avrebbero la caratteristica di una grande padronanza di sé, di elevata memoria e una preferenza per i giochi d’azzardo nei quali la componente di Agon sia significativa;
  • giocatori antisociali, intendendo con questo termine non persone affette necessariamente da un Disturbo Antisociale di Personalità, ma più estesamente i cosiddetti bari, coloro cioè che giocano manipolando le regole;
  • giocatori sociali casuali, cioè coloro i quali cercano nel gioco solamente un divertissement saltuario;
  • giocatori sociali severi, per i quali il gioco rappresenta la fonte principale di intrattenimento, senza che ciò diventi fonte di danno per gli altri aspetti della vita (famiglia, lavoro, ecc.);
  • giocatori nevrotici, cioè quei giocatori nei quali si riscontrano diverse problematiche psicologiche come ansia, depressione o scarsa autostima e per i quali il gioco rappresenta una strategia di fuga da esse. Per Custer essi non sarebbero giocatori compulsivi ma la loro modalità di gioco sarebbe “problematica”, similmente agli Alcohol Abusers del DSM-IV;
  • giocatori compulsivi, categoria che includerebbe tutti coloro che effettivamente hanno perso il controllo sul gioco, trasformando tale attività e i suoi correlati nel cardine della propria vita quotidiana. Custer assimila metaforicamente il gioco compulsivo ad una malattia fisica progressiva, la quale attraversa tre fasi successive (fase vincente, fase perdente e fase della disperazione) e prevede solamente quattro vie di uscita: il suicidio, la delinquenza (e l’incarcerazione), la fuga o la richiesta di aiuto.
Questa minoranza di giocatori patologici viene definita da un altro autore, Igor Kusyszyn (1972), come “addicts”, accanto alle categorie dei giocatori “sociali” e “professionali”, introducendo l’idea, condivisa da diversi autori, di una patologia che sia apparentata con le Dipendenze, costituendo un esempio paradigmatico di una nuova categoria nosografica: le cosiddette Dipendenze Comportamentali o Tossicomanie Senza Sostanza.

Infine, più recentemente Blaszczynsky (2000) ha proposto un modello interpretativo e descrittivo alternativo, che identifica tre principali sottogruppi di giocatori patologici: “normali”, “emozionalmente vulnerabili” e “impulsivi su base biologica”. Egli afferma che: “tutti i gruppi sono esposti a influenze comuni, correlate con fattori ambientali, processi cognitivi e contingenze di rinforzo; tuttavia, stress emotivi predisponenti e disturbi dell’affettività per un gruppo e impulsività su base biologica per l’altro, sarebbero dei fattori di rischio addizionali di significato eziologico nell’identificazione di sottotipi separati” (Blaszczynsky, 2000).
  • Giocatori problematici normali: questo gruppo, definito in forma ossimorica, accomunerebbe quei giocatori che soddisfano i criteri di gioco d’azzardo patologico solamente in alcuni momenti della loro “carriera”. Essi non sarebbero affetti da alcuna particolare psicopatologia e l’eccesso di gioco sarebbe solamente il risultato di una erronea strategia decisionale. I sintomi più frequenti causati dal gioco e dalle inevitabili ingenti perdite sarebbero per questa classe di persone: il pensiero prevalente incentrato sul gioco, l’inseguimento delle perdite, l’abuso di sostanze, la depressione e l’ansia. Questi giocatori, infine, sarebbero più facilmente motivati o motivabili, a ricercare aiuto o aderire ad un trattamento specifico;
  • giocatori emotivamente disturbati: questi giocatori sono caratterizzati dalla presenza di una “vulnerabilità psicologica predisponente” che li induce a ricercare nel gioco un tentativo di modulazione del proprio stato affettivo. Per Blaszczynsky questi giocatori hanno più frequentemente una familiarità positiva per il gioco, tratti di personalità nevrotici e una storia di eventi traumatici. In questi pazienti ansietà, depressione, abuso di sostanze sono più facilmente eventi che precedono il gioco, oltre ad essere rinforzati da esso;
  • giocatori con correlati biologici: Il terzo sottotipo di giocatori patologici è definito dalla presenza di disfunzioni neurologiche o neurochimiche, che determinano un discontrollo dell’impulsività e un deficit dell’attenzione, così come descritto in alcuni studi elettroencefalografici, neuropsicologici e biochimici, oltre che genetici. Clinicamente questi soggetti manifesterebbero uno spettro di comportamenti problematici indipendenti dal gioco, quali abuso di sostanze, tentativi di suicidio, irritabilità, bassa tolleranza alla noia, un profilo di sensation seeking e comportamenti antisociali. Più frequentemente l’attività di gioco inizierebbe in età precoce, con rapido aumento dell’intensità del fenomeno.
 Illustrazione 4 - Psichiatria

 

Le interpretazioni della psicoanalisi

Gli psicoanalisti furono i primi ad interessarsi alla psicologia del giocatore, proponendo un legame fra la tensione generata e scaricata attraverso il gioco d’azzardo e la sessualità. Hans Von Hattingberg (1914) teorizzò che nella struttura personologica del giocatore compulsivo la tensione e la paura prodotte dalla dinamica di gioco fossero state erotizzate; questo provare piacere dalla paura rifletterebbe tendenze masochistiche di origine pregenitale. Il masochismo, la masturbazione e l’onnipotenza narcisistica saranno i temi chiave attraverso i quali la psicoanalisi tenterà di dare un significato alla perdita di controllo sul gioco. Freud, nel suo lavoro “Dostoevskij e il Parricidio” del 1928, analizzando la figura dello scrittore russo e la sua parabola di giocatore compulsivo, formulò alcune importanti osservazioni:
 
  • il giocatore nevrotico non gioca per vincere denaro, ma per il gioco in sé stesso (“il gioco per il gioco”, come scrive autobiograficamente Dostoevskij ne “Il giocatore”);
  • il giocatore continua a giocare a causa di un senso di colpa che deve essere espiato tramite la perdita. Il giocatore, quindi, non solo non aspirerebbe alla vincita, ma necessiterebbe della sconfitta, la quale assume un carattere autopunitivo;
  • il comportamento primario al quale tutte le dipendenze si rifanno è, per Freud, la masturbazione. Anche Otto Fenichel, più tardi, sosterrà questa tesi, affermando che: “Come i nevrotici inventano varie specie di oracoli per ottenere da Dio il permesso di masturbarsi e per liberarsi dal senso di colpa (tentativo che di regola fallisce), anche il giocatore cerca di capire se il fato è favorevole al suo giocare (masturbarsi) o se è contrario (castrare)”;
Per Freud il senso di colpa origina dalle dinamiche del complesso edipico e in particolare dall’ambivalenza relazionale nei confronti del padre, da un lato idealizzato e dall’altro odiato. Il desiderio di eliminarlo per assumerne il posto davanti alla madre, genera in risposta l’angoscia di castrazione e il senso di colpa. La personalità masochistica, sotto la minaccia della castrazione, cerca allora di sostituirsi alla madre, nel tentativo di recuperare l’amore paterno. Ciò, tuttavia, provoca nuovamente una sorta di autocastrazione e perciò “sia l’odio che l’amore per il padre devono essere repressi”.

Questa particolare relazione con le figure parentali viene successivamente internalizzata, con il generarsi di due istanze psichiche: l’una, il Super-Io, prodotto dalla identificazione con il padre; l’altra, l’Io, da quella con la madre come oggetto dell’amore paterno. “Super-Io = Padre = Sadico e Io = Madre o identificazione femminile = Masochista”.

L’Io del giocatore compulsivo, allora, da un lato proverebbe soddisfazione nel porsi come sfidante del Fato (identificato con il padre punitivo), ma nello stesso tempo ne otterrebbe un’espiazione punitiva, per aver tentato la Fortuna (la madre). “In altre parole, sarebbe – per Rosenthal – un altro modo di ritualizzare la domanda: «Mio padre mi ama?». Entrambi i metodi sono insoddisfacenti, poiché rinfocolano il senso di colpa che a turno deve essere alleviato. Si instaura così un circolo vizioso.”

Edmund Bergler fu, dopo Freud, l’autore che più enfatizzò il ruolo del masochismo nella dinamica psichica del giocatore patologico. Nel suo testo The Psychology of Gambling del 1957 ci presenta inoltre un’ampia trattazione di casi clinici, di pazienti da lui stesso trattati con il metodo analitico. Secondo Bergler il giocatore nevrotico si sta ribellando contro le figure parentali, che originariamente hanno imposto le regole e le restrizioni al principio di piacere.

Il gioco compulsivo sarebbe perciò la messa in atto di un tentativo illusorio di eliminare la frustrazione legata al principio di realtà, con una regressione verso l’onnipotenza infantile in cui “tutti i desideri sono automaticamente soddisfatti”. Ciò, tuttavia, riattiva nell’inconscio una “latente ribellione”, che genera un acceso odio nei confronti dei genitori e un inevitabile senso di colpa, che necessita di espiazione. Perdere, dunque, sarebbe essenziale per l’equilibrio psichico; “è il prezzo che paga per la sua aggressione e allo stesso momento è ciò che gli consente di continuare a giocare”. Bergler sostiene che la ribellione del giocatore rappresenta solamente un “livello superficiale” della sua nevrosi, laddove a livelli più profondi, presenta ciò che egli definisce un masochismo psichico, una sorta cioè di estrema difesa contro le frustrazioni, che consenta di “produrre piacere dal dispiacere”, nel tentativo ultimo di non abbandonare il principio di piacere; “quando la punizione diventa piacere, la punizione è ridotta ad un assurdo”.

Nella dinamica di gioco l’avversario (il videopoker, la roulette, i dadi) è inconsciamente identificato con la madre (o con il padre) rifiutante. Da essi non si può che attendere un rifiuto e “l’inconscio desiderio di perdere” assicura questo risultato. “Consciamente il giocatore è assolutamente convinto che egli dovrà vincere, ma inconsciamente egli crede che la madre o il padre crudele lo faranno perdere”. Altri autori hanno diversamente interpretato il sentimento di onnipotenza del giocatore patologico, considerandolo ad esempio, un meccanismo di difesa che riporta il giocatore ad una riunione con la madre buona, in una sorta di autarchia psichica, nella quale dipendenza e sentimenti d’inferiorità siano negati.

Valleur e Bucher (1999) sostengono che il giocatore continuerebbe a domandare al Fato, come ad un oracolo, una risposta sul valore della propria vita, come in una sorta di “condotta ordalica”, nella quale da un lato si “abbandona alla sottomissione, al verdetto del destino e dall’altro alla illusione di riprendere il controllo sulla propria vita”.

Per Bolen e Boyd (1968), infine, è più utile descrivere il gioco patologico come un sintomo presente in diversi quadri psicopatologici, a difesa da sentimenti depressivi. Il circolo vizioso si genererebbe in funzione della necessità di “riprodurre rispettivamente il rifiuto e la sofferenza masochistica. In tal modo gli affetti e il comportamento diretti originariamente verso i genitori, sono trasferiti nell’arena del gioco d’azzardo, nella quale il giocatore tenta di provocare il rifiuto da parte del Fato (padre) e della Fortuna (madre), nello stesso modo in cui ha esperito o crede di aver esperito, il rifiuto relazionale da parte dei genitori durante l’infanzia”.

Illustrazione 5 - Psichiatria

 

Prospettive cognitive

I teorici cognitivi si sono soffermati in particolare sulle distorsioni cognitive presenti nel giocatore patologico, le quali inducono una sottostima del rischio a causa della convinzione della possibilità di influenzare il risultato del gioco. L’illusione di controllo, definita da Langer (1975) come una “aspettativa di successo personale erroneamente alta rispetto a quanto l’obiettivo possa garantire”, è stata dimostrata con diversi esperimenti, nei quali si è verificato che nel caso di giochi di fortuna nei quali è assente la componente di abilità (giochi di Alea secondo Caillois), sia i giocatori patologici, che i cosiddetti giocatori sociali, tendono maggiormente ad attribuire a sé un controllo sull’esito del gioco laddove abbiano partecipato attivamente ad esso (ad esempio se hanno tirato essi stessi i dadi).

È stato altresì osservato come i giocatori di dadi tendano a tirare con maggiore energia se desiderano un numero elevato, mentre con minore forza, se l’esito “deve” essere un numero basso (Henslin, 1967).

Inoltre, i giocatori patologici hanno spesso una concezione distorta della logica matematica, che li fa sovra-stimare o sotto-stimare il rischio. Un esempio di tale distorsione cognitiva è la cosiddetta Fallacia del giocatore o Fallacia di Montecarlo, che si verifica quando il giocatore pensa di avere una maggiore possibilità di successo dopo una lunga serie di perdite. In uno studio di Ladouceur e Walker (1996) riportato da Croce (2001) si è evidenziato come “i partecipanti a un gioco di lancio di monete in cui erano invitati a prevedere se il risultato sarebbe stato testa o croce, avendo la possibilità dietro pagamento di osservare la sequenza dei lanci precedenti, scelsero di pagare per ottenere tale informazione, benché questa fosse del tutto inutile nel fornire previsioni sul risultato del lancio successivo”. Secondo altri autori l’attitudine ad assumersi rischi è regolata da un tratto del carattere, che induce le persone alla ricerca del loro ottimale livello di attivazione (arousal). Zuckerman (1971) ha elaborato una scala che misura la ricerca del sensazionale (Sensation Seeking Scale), attraverso una serie di fattori (riportati in Dickerson, 1984):
  • ricerca del brivido, dell’avventura, della sfida come avviene negli sport pericolosi;
  • ricerca di esperienze nuove (sul piano cognitivo o emozionale);
  • disinibizione o bisogno di agire liberamente nella sfera sociale;
  • suscettibilità causata dalla noia.

Zuckerman (1983) afferma che per quanto riguarda il gioco d’azzardo “agli individui piace il rischio di perdere denaro per il rinforzo positivo prodotto dagli stati di alto arousal che si verificano sia durante la suspence per l’attesa del risultato, sia in seguito alle stimolazioni per la vincita.”
 

Conclusioni

Se la fine del XIX Secolo vedeva l’emergere dell’interesse medico nei confronti delle nevrosi e in particolare dell’isteria, che diveniva “la chiave di volta di un nuovo modo di approcciarsi alla psiche umana, con la nascita della psicoanalisi”; la fine del XX e l’inizio del XXI secolo obbligano a confrontarsi con nuove forme di patologia: i disturbi di personalità, le tossicodipendenze e le forme di addiction comportamentali.

Di pari passo con i mutamenti sociali e con la perdita degli imperativi morali di fine ‘800, il discontrollo dell’impulsività e la conseguente tendenza all’agito, manifestazioni di un difetto di inibizione, hanno soppiantato, quasi come in un contrappasso storico, l’eccesso di inibizioni presente nell’isteria. Anche se diversi studi hanno dimostrato l’assenza di un legame diretto fra un particolare disturbo della personalità e le tossicodipendenze, ivi compreso il gioco d’azzardo patologico, alcuni autori hanno sostenuto che “le persone che sperimentano un coinvolgimento totale con il gioco (o con le droghe) funzionano tutte, nel tempo in cui tale coinvolgimento si manifesta, ad un livello borderline”, anche se “tale funzionamento può essere limitato nel tempo e legato a circostanze individuabili e modificabili.”

Ciò si manifesta ad esempio nella presenza di violente oscillazioni del tono dell’umore, nell’instabilità relazionale, nella difficile integrazione di aspetti positivi e negativi relativi al e al mondo esterno o nella “ricerca di figure o di oggetti mitici percepiti e sentiti come dotati di potere salvifico ed a cui legarsi con forme di dipendenza più o meno aggressiva”, indice di un massiccio ricorso alla identificazione proiettiva. Queste considerazioni erano state similmente formulate da Vaillant (1980) sulla personalità dell’alcolista.

Illustrazione 6 - Psichiatria

Egli aveva infatti dimostrato che l’alcolista non mostra una personalità premorbosa orale, passiva e dipendente, superiore alla media dell’intera popolazione; tuttavia, durante la fase attiva della dipendenza “questi tratti emergono come un fenomeno secondario piuttosto che primario. Lo stesso è probabilmente vero per il giocatore patologico.”

Le sostanze e i comportamenti che provocano addiction indurrebbero quindi una regressione ad uno stadio pregenitale, nel quale si manifesta un sentimento narcisistico di onnipotenza. Secondo Weiss (1994) uno dei motivi per il quale tali pazienti non chiedono facilmente aiuto terapeutico è proprio legato all’angoscia di perdere la funzione analgesica dell’onnipotenza.

La perdita della linea di confine (border-line), caratteristica dell’epoca attuale, induce una continua ricerca del limite, attraverso comportamenti di sfida e di trasgressione (il rischio). D’altra parte, come scriveva Michel Foucault nel 1975 “il limite e la trasgressione devono l’uno all’altra lo spessore del loro essere”. Il tentativo di tracciare dei limiti, là dove mancano limiti simbolici, manifesta la necessità di “tracciare a sé stessi un contenitore (containing) per sentirsi finalmente esistere, contenuti in maniera provvisoria o durevole. Il limite risponde ad una necessità antropologica, permette all’individuo di esistere ponendosi attivamente all’interno di un sistema simbolico che struttura gli scambi. La psicosi è del resto uno degli esiti della non separazione tra sé e mondo, della confusione di sé con gli altri.”

L’aumento di ricerca del sensazionale e dei comportamenti ordalici tipico della nostra epoca induce di pari passo un continuo aumento delle problematiche connesse allo sviluppo di addictions, imponendo conseguentemente nuove ricerche che migliorino sia le conoscenze sull’eziopatogenesi del disturbo, sia la qualità dell’intervento terapeutico, onde aumentare l’efficacia dei vari livelli di prevenzione.

 

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