Le vene varicose sono una malattia a tutti gli effetti che, se non curata, prevede nel tempo un peggioramento e delle complicanze.

Il meccanismo del peggioramento è facile da intuire e consiste nella moltiplicazione e nell’accrescimento dei “bozzi” sulle gambe sino al raggiungimento di quadri a “carta geografica fisica tridimensionale”, ossia un insieme di pianure (cute normale), fiumi (vene non rilevate e capillari), colline (vene poco rilevate), montagne (vene rilevate) e depressioni (aree di alterazione permanente della cute) di colore variabile dal rosa pallido al blu.

Dall’altro lato, le complicanze non sono rare. Le più frequenti ed immediate sono le flebiti cui possono far seguito alterazioni della cute ed ulcere difficili da trattare. La flebite è un evento certo nella storia della malattia varicosa. L’unico dato incerto è il tempo che passa prima che questa faccia la sua comparsa. Se una flebite è “programmata” per svilupparsi al compimento dei 148 anni di età, chiaramente il soggetto non avrà il tempo di sperimentarla ma di solito non è così. Chi soffre di varici ha una probabilità 20 volte maggiore rispetto alla popolazione esente dalla malattia di soffrire di una flebite. In seguito alle flebiti, più o meno clinicamente importanti, la cute soffre e con il passare del tempo si crea un cratere che si definisce ulcera. A quel punto tutto si fa più difficile e le cure sono lunghe e fastidiose.

Sulla scorta di quanto detto, quindi, il perché curare le vene varicose diviene facilmente comprensibile. Concluderei ricordando che il trattamento delle varici è un atto di “prevenzione secondaria”. Mi spiego. La “prevenzione primaria” è quella che serve a non far comparire una malattia (non fumare, fare attività fisica, avere una dieta bilanciata, non esporsi alle radiazioni o all’amianto e così via) mentre la “prevenzione secondaria” è quella che si effettua a malattia presente per prevenirne l’evoluzione e/o le complicanze. Così, trattando le varici mi metto a riparo dalle flebiti e dalle ulcere.