E' l'ultimo appuntamento di un pomeriggio estenuante. La segretaria fa entrare la paziente e saluta, andando via. La sig.ra Y è una 42enne belloccia, un po' sovrappeso. Capelli lunghi e ricci, mi ricorda vagamente la Flora di Tiziano. Con lei entra il marito, che spinge un passeggino con un bambino che sicuramente avrà meno di un anno. La sig.ra Y dice di essere stata inviata a me dal suo Medico di Medicina Generale, per la valutazione di una sospetta gastrite. "Andiamo con ordine", dico io, e inizio a raccogliere una approfondita anamnesi. La paziente fa risalire l'inizio della sintomatologia a ben prima della gravidanza, circa 3 anni fa, quando, dopo un pranzo abbondante, ha avuto un episodio di dolore intenso in epigastrio, irradiato sotto l'arcata costale destra e dietro fino all'apice della scapola, accompagnato da nausea e vomito. Il dolore è durato circa 2 ore, e si è risolto solo dopo che una vicina di casa, infermiera, le ha somministrato una fiala di Buscopan intramuscolo. La paziente ha quindi trascurato questo primo episodio, giudicandolo occasionale, ed ha goduto di un periodo di benessere. Al quinto mese di gravidanza, altro episodio del tutto analogo,anche in questo caso regredito dopo l'assunzione di un antispastico. E anche in questo caso la paziente ha preferito scotomizzare l'accaduto. Dopo il parto, gli episodi di dolore si sono ripetuti abbastanza regolarmente, circa uno al mese, e si sono verificati spesso di notte. A questo punto interviene il marito che, in silenzio fino a questo momento, aggiunge un tassello fondamentale al puzzle. "Ti ricordi" dice "che quella volta, un paio di mesi fa, quando stavi male dopo la cena a casa di Luca e aspettavamo che il Buscopan facesse effetto, ti dissi che mi sembravi un po' giallina?" "Ma sarà stata la luce del neon!! Che vai a pensare..." ribatte in fretta la donna. Il mio iniziale sospetto diagnostico inizia ad avere qualche conferma?

Il quadro clinico presentato è piuttosto tipico della calcolosi biliare, cioè della presenza di calcoli nella colecisti e/o nelle vie biliari, cioè quei condotti che portano la bile dal fegato fino all'intestino. La bile è essenziale anche per l'assorbimento degli acidi grassi, ma tra un pasto e l'altro, anziché finire sprecata, viene immagazzinata nella colecisti, una specie di sacchetto posto al di sotto del fegato e ad esso legato. In effetti la colecisti non ha solo funzione di reservoir, ma modifica la composizione della bile. Se questa rielaborazione non si svolge in maniera corretta (proprio per un difetto primario della colecisti), la bile può divenire "soprassatura", cioè i componenti al suo interno non sono più in soluzione ma tendono a precipitare, come quando mettiamo troppo zucchero nel caffè, e formare un residuo granulare semisolido. Successivamente, questa "fanghiglia" biliare (noi chirurghi la chiamiamo "sludge", ma è lo stesso) tende a consolidarsi in calcoli, cioè "pietre" più o meno dure (a seconda della composizione). Il destino di questi calcoli è vario. Spesso restano asintomatici per tutta la vita, e vengono scoperti nel corso di esami diagnostici di controllo o eseguiti per altri motivi. Altrettanto spesso, invece, danno segno di se. Il primo e più comune segno della presenza di calcoli nella colecisti è la cosiddetta "colica biliare": un dolore intenso, improvviso, trafittivo, che parte dall'ipocondrio destro e si irradia posteriormente fino all'apice della scapola, insorge dopo il pasto e dura qualche ora. Talvolta, nel 10% dei casi circa, la calcolosi della colecisti da segno di se con una complicanza, cioè con una colecistite acuta, una pancreatite o un ittero. La colecistite acuta è una infiammazione della colecisti: alla colica biliare si associano febbre e segni di peritonite, che all'inizio è localizzata, ma può diffondersi con il progredire dell'infezione. La pancreatite acuta è una infiammazione del pancreas dovuta (spesso ma non sempre) alla presenza di piccoli calcoli che dalla colecisti scendono lungo il coledoco e vanno ad ostruire il dotto pancreatico, causando l'accumulo del secreto del pancreas e l'attivazione dei suoi enzimi. Infine, l'ittero è dovuto all'ostruzione del coledoco da parte di calcoli provenienti dalla colecisti; in tale situazione la bilirubina si accumula nel fegato e passa in circolo nel sangue, andando a fissarsi soprattutto nella cute e nelle sclere. Mentre la colica biliare "semplice" è di semplice gestione, e di solito regredisce con i comuni antispastici, le complicanze descritte possono essere più o meno gravi, richiedono sempre il ricovero e talvolta un intervento in urgenza. La calcolosi della colecisti è più frequente nel sesso femminile e nell'età fertile, ma praticamente ognuno è più o meno a rischio, indipendentemente dalla dieta che fa. Il soggetto tipico è quello descritto dalle "5 F": female, fourty, fertile, fat, fair, cioè una donna quarantenne belloccia e sovrappeso.

Visito quindi la paziente, che attualmente non è itterica, è in buone condizioni generali, con addome trattabile ma dolente alla palpazione profonda in ipocondrio destro. Richiedo quindi una ecografia epatobiliopancreatica e un esame del sangue, con dosaggio delle transaminasi, della gammaGT, della fosfatasi alcalina, della bilirubina totale e diretta, della lattico deidrogenasi, oltre ai classici emocromo completo, azotemia, creatininemia, glicemia, elettroliti, colesterolo, trigliceridi, coagulazione e markers epatite B e C. Per evitare di trascurare alcunché, soprattutto per riguardo all'ipotesi diagnostica del Collega inviante, chiedo alla paziente di eseguire anche una esofagogastroduodenoscopia. Quando torna, circa 10 giorni dopo, a farmi visionare gli esami, la paziente mi riferisce che in quel lasso di tempo ha avuto un altro episodio di colica, ma stavolta la colorazione gialla delle sclere è stata ben evidente ed è durata 2 giorni almeno. Gli esami ematici sono sostanzialmente tutti nella norma, tranne la gammaGT, che è lievemente aumentata. L'ecografia conferma il mio sospetto di calcolosi della colecisti (calcoli multipli di grandezza variabile da qualche millimetro a 3 cm); le vie biliari intraepatiche non sono dilatate, ma il coledoco ha un diametro ai limiti superiori della norma (9 mm). L'EGDS è assolutamente normale.

La diagnosi di calcolosi della colecisti è piuttosto semplice: oltre ad una storia clinica significativa basterebbe l'ecografia epatica. Gli esami ematici sono invece indispensabile per escludere che ci sia in atto una ostruzione biliare dovuta ad una calcolosi del coledoco (che peraltro sarebbe già sospettabile sulla base della presenza di dilatazione delle vie biliari a monte dell'eventuale ostruzione). In presenza di una calcolosi del coledoco, prima di rimuovere la colecisti è opportuno bonificare il coledoco stesso. Questo avviene mediante una procedura endoscopica chiamata colangiopancreatografia retrograda (CPRE): con un endoscopio si raggiunge dalla bocca lo sbocco del coledoco nell'intestino e da lì si inseriscono, sotto guida radiologica, cateteri, pinze e quant'altro possa servire per la rimozione dei calcoli. La CPRE però è da considerare un vero e proprio intervento chirurgico, che ha i suoi rischi. Per questo motivo se ne pone indicazione solo se siamo certi della presenza di calcoli nella via biliare. La certezza in questo senso (o meglio, un forte sospetto) è data dall'esecuzione di una colangiopancreatografia in risonanza magnetica (CPRM) che, con metodica non invasiva, ci permette di verificare lo stato delle vie biliari e pancreatiche.

Gli esami eseguiti confermano l'idea di calcolosi della colecisti, ma c'è il forte sospetto anche di un recente passaggio di calcoli nella via biliare (l'episodio di subittero, la modesta dilatazione del coledoco e la gGT aumentata). Anche se la paziente è al momento asintomatica e sicuramente non itterica, non posso escludere a priori che qualcosa sia rimasto nella via biliare. Le consiglio quindi di eseguire al più presto una CPRM. Quest'esame, diligentemente eseguito due giorni dopo, conferma la pervietà delle vie biliari e l'assenza di calcoli. Il coledoco è tornato al diametro usuale. Non resta che trattare la calcolosi della colecisti rimuovendo la colecisti stessa. La paziente, impaurita dalla proposta dell'intervento chirurgico, mi chiede se è possibile tentare con una terapia medica. Al mio netto e circostanziato diniego, accetta di sottoporsi alla colecistectomia.

La terapia della colelitiasi sintomatica, come nel caso descritto, è solo chirurgica. La cosiddetta litolisi chimica, mediante l'assunzione di sali biliari, può essere indicata solo in presenza di sabbia biliare senza calcoli o microcalcoli di colesterolo senza calcio o nel paziente che non può essere sottoposto ad intervento chirurgico per patologie associate gravi. Comunque, la terapia con sali biliari, pur se efficace (e non sempre lo è) comporta alla sua sospensione una elevatissima probabilità di recidiva. In presenza di calcoli non sintomatici il discorso è complesso. In teoria, e solo in teoria, la scoperta casuale di calcoli della colecisti non associati a sintomi specifici non è di per se indicazione all'intervento chirurgico. Ma sappiamo bene come ogni calcolosi ha un rischio di diventare sintomatica (circa il 10% ogni anno, il che significa che entro 10 anni virtualmente ogni calcolosi inizialmente asintomatica dà segno di se), spesso con una "semplice" colica biliare, talvolta con una complicanza (colecistite, ittero, pancreatite). Per questo motivo, la scelta se operare o no dipende dalla valutazione caso per caso, dalle preferenze del chirurgo e, soprattutto, dalla scelta del paziente. La terapia chirurgica della colelitiasi è la colecistectomia, cioè l'asportazione della colecisti. Non ha senso asportare solo i calcoli (è una domanda frequente dei pazienti?), in quanto è l'organo la sede della patologia, i calcoli sono solo una conseguenza di una anomalia della colecisti. Oggigiorno la colecistectomia viene eseguita quasi sempre per via laparoscopica, cioè con 3-4 piccoli buchi sulla superficie dell'addome (recentemente è stata introdotta anche una tecnica con un solo accesso). Come al solito, si entra con una telecamera e con due o tre strumenti che ci consentono di chiudere l'arteria cistica e il dotto cistico, staccare la colecisti dal fegato e asportarla. C'è sempre, come in ogni intervento laparoscopico, il rischio di dover convertire in laparotomia (cioè nel classico accesso con una più o meno ampia incisione sottocostale). Nella colelitiasi sintomatica semplice tale rischio è piuttosto basso (dell'ordine del 2-3%), ma sale fino al 20-25% se si opera il paziente in acuto nel corso di una colecistite. Il rischio di complicanze è basso. La complicanza più temibile è la lesione iatrogena del coledoco (circa 0,01-0,1% dei casi a seconda dell'esperienza dell'operatore), che spesso può risolversi con un approccio endoscopico ma talvolta richiede un vero e proprio intervento chirurgico, ha un decorso spesso problematico e sequele lunghe e fastidiose. Sono pressoché assenti le complicanze parietali (ad esempio gli ascessi sottocutanei e i laparoceli). L'emorragia è una complicanza rara ma sempre possibile. Di solito avviene intraoperatoriamente (e spesso richiede una conversione laparotomica), talvolta può invece avvenire nel periodo postoperatorio e per il suo controllo è necessario un reintervento che quasi sempre è laparotomico. Anche le lesioni dell'intestino sono evenienze possibili, che possono essere riconosciute nel corso dell'intervento e trattate per via laparoscopica o con una conversione laparotomia. Si può dire che le complicanze della colecistectomia laparoscopica sono potenzialmente degli eventi drammatici, ma fortunatamente si tratta di situazioni piuttosto rare. Nella grandissima maggioranza dei casi (circa il 99%) l'intervento e il periodo postoperatorio si svolgono nel migliore dei modi e senza complicanze di rilievo. Dopo poche ore dall'intervento il paziente ricomincia ad alimentarsi e viene tenuto per 15 giorni con una dieta povera di grassi, per consentire l'assestamento del fegato e delle vie biliari dopo l'asportazione della colecisti; successivamente riprende ad alimentarsi normalmente. Il rientro al lavoro può avvenire non appena il paziente stesso si sente in grado di svolgere le comuni attività, di solito entro 3-7 giorni (dipende anche dal tipo di lavoro e soprattutto dalle motivazioni al rientro; normalmente gli autonomi e i libero professionisti riprendono molto prima!!!).

La durata dell'intervento chirurgico è di 40 minuti, e tutto avviene nel migliore dei modi, senza difficoltà o complicanze. La paziente inizia a bere acqua 6 ore dopo l'intervento, assume cibi solidi dopo 12 ore e viene dimessa il giorno dopo l'intervento. La mini invasività del trattamento le consente di ritornare al lavoro 3 giorni dopo . Al controllo dopo 7 giorni è in ottima salute e le ferite sono ben consolidate. Dopo un mese la paziente è completamente asintomatica, ha ripreso ad alimentarsi normalmente (anche con la frittura di paranza, della quale è particolarmente ghiotta, accompagnata da un buon bicchiere di vino) e gli esami ematici sono assolutamente normali.