Infanzia e malattie

Qualunque sia la sua età, anche nei primissimi anni di vita, il bambino ha coscienza della condizione di malattia e spesso anche della gravità del proprio stato. Tale coscienza gli deriva principalmente dalla percezione di ciò che viene sperimentato sul proprio corpo e sentito nell’intimo, dal cambiamento dello stato di benessere, ma anche dalle modificazioni del rapporto con i propri genitori. 


Illustrazione 1 - Psicologia

La malattia è un’esperienza traumatica, un’esperienza di rottura di un equilibrio, di quella continuità del sé nel tempo e nello spazio.

Essa è vista dal bambino come una specie di “incidente”, un’interruzione della sua vita quotidiana, una rottura di quella rassicurante routine in cui il piccolo è inserito. Nell’ambito del percorso evolutivo, fisiologicamente caratterizzato da un continuo divenire e accompagnato da speranze e timori, la malattia oncologica, che minaccia il naturale diritto alla vita e alla crescita del bambino, s’inserisce come un’occasione di crisi, un elemento di rottura e di perdita, un fattore favorente la regressione psicologica, anche in rapporto alle modificazioni dell’atteggiamento genitoriale, soprattutto in caso di iper-protezione o permissivismo. 

Si configura così una condizione favorente la prevalenza dei “vantaggi secondari” della malattia: il piccolo paziente non riceve più limiti, regole, richiami, richieste ed è quindi libero di imperversare tirannicamente. A fronte di un apparente beneficio in termini di facilitazioni e di gratificazioni questa situazione comunque sottende un duplice messaggio negativo: da un lato sancisce l’abbandono a sé stesso del bambino da parte delle sue normali figure di riferimento, dall’altro conferma l’assoluta e irreparabile gravità del suo stato fisico, relegandolo al ruolo del “condannato a morte” a cui non si può negare la soddisfazione dell’ultimo desiderio. 
 

La malattia e le angosce di morte 

L’esperienza di malattia tumorale, anche nei casi in cui non provoca arresti duraturi e può quindi essere integrata nella storia individuale e familiare, comporta un costo psicologico elevato. Si tratta di una condizione di precarietà estrema a livello individuale, dove il rischio è alto, ma esistono anche concrete possibilità di salvezza: nella difficoltà di sostenere l’incertezza, lo stato emotivo del bambino e delle familiari tende ad oscillare tra disperazione ed illusione. L’essere confrontato con i limiti e la precarietà della condizione umana sollecita nel bambino, anche piccolo, riflessioni e consapevolezze molto avanzate rispetto ai coetanei, sancendone così una differenza interiore.

Sulla base della tematica emotiva generale delle angosce di morte, la specificità del vissuto in età evolutiva è determinata dalla compromissione non tanto e non solo di una condizione già stabilmente acquisita, quanto e piuttosto delle possibili realizzazioni future, oggetto di una nostalgica idealizzazione. Si configura così un grave attacco alla propria progettualità, l’origine interna del tumore impedisce strategie preventive e attesta potenzialità distruttive personali. L’esperienza di malattia, di per sé caratterizzata per lo più da sentimenti negativi, diventa nel bagaglio mentale del bambino la traccia di una condizione di perdita, solitudine, rabbia che riemergerà nel vissuto emotivo delle successive vicende sfavorevoli della vita.

Ovviamente più l’insorgenza è precoce, più l’attrezzatura mentale del bambino è in via di organizzazione, egli non è ancora in grado di differenziare la realtà dal vissuto emotivo. La malattia tumorale può diventare la chiave interpretativa delle vicende personali, percepite come risarcimento se favorevoli, o come inevitabile conseguenza se sfavorevoli.
 

Il concetto di malattia secondo la teoria di Piaget 


Secondo la teoria di Piaget il concetto di malattia evolve con lo sviluppo del concetto di causalità:
  • tra i due e i sei anni (fase pre-operazionale) la malattia è una punizione, dovuta ad un fenomeno naturale o a oggetti vicini, causata da elementi magici e fiabeschi;
  • tra i sei e i dodici anni (fase operatoria concreta) i bambini riconoscono una causa esterna, pericolosa o comunque cattiva, che può contagiarli attraverso il contatto o per introiezione. Una parte di questi bambini riconosce che la malattia è un processo che si svolge all’interno dell’organismo;
  • durante l’adolescenza (fase operatoria formale), invece, i ragazzi sono in grado di riconoscere la catena causa/effetto che può determinare una malattia, integrando in essa cause psicologiche oltre che fisiche.

Questa ipotesi di stadiazione non va assunta, tuttavia, in senso assoluto perché i bambini malati vivono periodi di regressione, per cui la loro concettualizzazione può essere falsata dalla condizione emotiva in cui si trovano. Secondo l’età, inoltre, la condizione di malattia può essere vissuta come un evento aggressivo esterno, talora conseguente a colpe reali o fantastiche o come una situazione di perdita della propria identità e integrità; comunque, come una condizione di diversità soprattutto a livello emotivo, che genera solitudine, incomunicabilità ed esclusione. 

La malattia si presenta talvolta, a chi la vive, come la denuncia di una qualche “colpa” che lui avrebbe commesso e per la quale si chiede “che cosa ho fatto per meritarmi tutto questo?”
 

Il concetto di dolore: cos'è?


L’esperienza del dolore è un fenomeno complesso, uno stato mentale in cui convergono meccanismi biologici, psicologici e sociali; un fenomeno influenzato anche dal contesto in cui si sperimenta il dolore. È un’esperienza soggettiva, quindi condivisibile solo in parte e non misurabile oggettivamente. Da un punto di vista fisiologico anche i neonati sperimentano dolore ma la consapevolezza di questa esperienza è profondamente influenzata dallo sviluppo cognitivo generale.

Il concetto di dolore si sviluppa sia come costrutto esperienziale sia come concetto astratto; pertanto, è determinato sia dagli eventi vissuti sia dal livello di sviluppo cognitivo raggiunto. La memoria è il fattore fondamentale che permette al dolore di svolgere la sua funzione di avvertimento e tutela dell’integrità fisica, come dimostra la comparsa della paura anticipatoria nei lattanti intorno ai sei mesi. Le parole riferite al dolore fanno parte del primo vocabolario del bambino e la loro valenza denotativa e connotativa, oltre che il loro numero, si arricchisce parallelamente al concetto stesso di dolore.

Illustrazione 2 - Psicologia

Le definizioni del dolore 

Gaffney e Dunne hanno categorizzato le risposte dei bambini al dolore in tre tipologie, in base al grado di astrazione: 
  • le definizioni concrete identificano il dolore come una “cosa”, con proprietà spiacevoli e localizzata nell’addome o più in generale nel corpo, talvolta associato a malattie o traumi, spesso identificato con la malattia stessa;
  • nelle definizioni semi-astratte il dolore è una sensazione descrivibile anche con sintomi, che implica anche conseguenze emotive;
  • nelle definizioni astratte il dolore può essere psicologico, oltre che fisico, e viene descritto nelle sue caratteristiche fisiologiche e psicologiche con riferimenti alle implicazioni psicosociali e al significato fisiologico.

Il concetto di dolore secondo la teoria di Piaget 

Facendo riferimento, invece, agli stadi dello sviluppo cognitivo di Piaget, si può affermare che: 
  • nello stadio preoperatorio, i bambini danno definizioni generali, unidimensionali e circolari, con la tendenza a concentrarsi sulle caratteristiche percettivamente dominanti;
  • nello stadio operatorio le descrizioni sono semplici e concrete, ma prevedono anche aspetti psicologici, essenzialmente legati all’influenza sul tono dell’umore;
  • le definizioni della fase formale sono invece generalizzate, astratte e ricche di connotazioni emotive e si riferiscono al dolore mentale oltre che fisico. 
 

Il ruolo della personalità nella percezione del dolore 

Oltre ai fattori cognitivi anche la personalità influenza l’esperienza del dolore: già nel primo anno di vita sono state verificate, nelle reazioni alle procedure mediche dolorose, differenze temperamentali come l’umore e l’adattabilità. Per quanto riguarda i bambini più grandi elementi quali ambizione, aggressività, competitività e iperattività, influenzano notevolmente la percezione del dolore, con la tendenza a riportare meno sintomi fisici e maggiore resistenza alla fatica. Ma con il rischio che questi bambini siano erroneamente percepiti come più sani perché non si lamentano.
 

Le emozioni 

La malattia, le frequenti e lunghe ospedalizzazioni, le restrizioni imposte dalle procedure, il dolore percepito a causa dei trattamenti terapeutici, come in precedenza detto, sconvolgono la vita del bambino dalle sue routine quotidiane al rapporto con la famiglia, riducono l’opportunità di giocare, di esplorare, di sviluppare relazioni intime nella prima infanzia, possono compromettere i risultati scolastici e interferire nelle relazioni interpersonali.

Al bambino è richiesto di adattarsi ad una vita completamente diversa da quella che ha condotto fino allora; anche i suoi genitori obbediscono alle disposizioni dei medici: non è infrequente che egli in questo contesto perda fiducia nell’onnipotenza dei genitori che non riescono a proteggerlo dal male. Le procedure diagnostiche e i trattamenti minacciano il suo corpo e la sua integrità fisica e psichica. Nell’infanzia le linee divisorie tra conscio e inconscio, realtà e fantasia sono meno definite, meno saldamente stabilite di quanto non saranno nella vita successiva e le minacce esterne, quali interventi chirurgici o analisi mediche possono essere difficili da distinguere da quelle interne, inconsce. 

Vi è nella mente dei bambini la credenza, fermamente radicata, che le malattie siano autoindotte, ben meritata punizione per ogni sorta di cattiverie, disobbedienze, trascuranza delle regole, delle proibizioni, d’illecite pratiche fisiche. Mentre tali rappresentazioni errate, pur suscitando turbamento, possono restare di scarso significato per il bambino sano, diventano importanti per il bambino gravemente malato perché minano la sua forza di combattere la malattia creando un atteggiamento falso, masochistico e morbosamente passivo verso la sofferenza.
 

La malattia come minaccia di morte 

Lo shock della diagnosi, il senso di essere attaccato nel corpo e nella mente, hanno sul bambino un effetto devastante il cui esito può essere comparato a quello di un trauma psichico. Secondo Winnicott, verso i bambini è importante preservare una certa dose di illusione, evitare un’insistenza troppo improvvisa sul principio di realtà. La malattia è una reale minaccia di morte contro la quale il bambino è indifeso: è indispensabile portarlo gradualmente verso questa realtà. Per quanto abnormi possano sembrare, le reazioni emotive dei bambini alla loro condizione di malattia, sono reazioni comprensibili se ci si rende conto di quanto siano straordinarie le circostanze in cui si vengono a trovare. 

La comunicazione della diagnosi genera la regressione del bambino e dei genitori, in particolar modo della madre, in un rapporto simbiotico e un disinvestimento di tutto ciò che è esterno. L’ospedalizzazione, le procedure diagnostiche, i trattamenti, il dolore fisico ad essi collegato rendono il bambino insicuro, frastornato; egli è travolto da emozioni quali ansia, paura, depressione, timore di abbandono e morte. Lo stato di malattia incrementa sentimenti di dipendenza, di diversità, di ansia e perciò rende più vulnerabili. Il piccolo paziente cerca una protezione maggiore dal suo caregiver, instaurando una dipendenza che può manifestarsi con il rifiuto del cibo, perdita del controllo degli sfinteri, bisogno di essere lavato, vestito, imboccato. L’atmosfera emozionale della famiglia, e in particolare l’iperprotettività legata alle angosce e ai sensi di colpa prodotti dalla malattia, favorisce questa modalità relazionale.

D’altra parte, come affermato da Brown, i bambini affetti da tumore evidenziano pochi sintomi psichiatrici: per quanto riguarda bambini con diagnosi recente o in trattamento sono perlopiù affetti da disturbi depressivi manifestati con ricorrenti pensieri di morte, scarsa concentrazione, isolamento sociale e anedonia, mentre ad un anno dalla diagnosi si riscontrano più frequentemente deficit dell’attenzione e iperattività.

Illustrazione 3 - Psicologia


La paura dei trattamenti terapeutici 

In genere già durante il primo anno di trattamento emerge una progressiva diminuzione della sintomatologia, dopo il primo periodo di terrore, il bambino può dar segno di essersi abituato all’invasività delle cure ma è anche possibile che, in una fase successiva, egli torni a provare una grande difficoltà nel tollerare le cure. Il terrore e l’impotenza provata durante le varie procedure sono spesso trasmessi attraverso la depersonalizzazione dell’immagine di sé e del medico. 

Da vari studi sui disegni dei bambini ospedalizzati, è scaturito che la figura che rappresenta il bambino è spesso disegnata come un oggetto, frequentemente omesso dal suo contesto, questa potrebbe essere una difesa per prendere distanza dalle procedure subite e illudersi che l’evento doloroso non sia stato sperimentato da sé stesso. La dissociazione è una difesa contro la sensazione di essere sopraffatto; per lo stesso motivo le flebo, le siringhe, le attrezzature mediche in genere, sono abitualmente disegnate lontano dal corpo del bambino. Anche i medici sono anonimi e talvolta senza volto. Le difese che emergono in questi disegni possono dare la misura dello sforzo emotivo che il bambino compie per difendersi dall’impotenza provata durante questi eventi. 

Bambini di età inferiore ai quattro anni sopportano meglio la malattia essendo la regressione conseguente alla stessa, per loro più consona. Per i bambini più grandi si rilevano, invece, problemi maggiori: dopo un’aggressività iniziale, testimonianza di angoscia per l’ospedalizzazione e le conseguenti terapie, si manifestano l’accettazione e la regressione. È importante sottolineare che i bambini che hanno ricevuto, durante la fase iniziale della malattia, più informazioni riguardanti diagnosi e prognosi sono significativamente meno ansiosi e meno depressi. Un ulteriore aspetto da considerare è che la consapevolezza sull’effettivo stato di salute è raggiunta dai bambini anche senza un’informazione diretta, attraverso il cambiamento comportamentale dei genitori, e i discorsi percepiti a casa e in ospedale. 
 

Gli effetti della malattia sullo sviluppo psicologico 

“La malattia è lo spazio della notte, abitarci comporta una cittadinanza dolorosa.” A seguito del reale bisogno di cure, si genera nei bambini malati uno stato di dipendenza, anche emotiva, che tende a persistere nel tempo ostacolando l’acquisizione di uno degli obiettivi primari del percorso di crescita: la progressiva conquista dell’autonomia.

Del resto, aver raggiunto un certo grado di indipendenza fisica dal mondo adulto e avere un controllo sul proprio corpo rappresentano grandi conquiste evolutive, che i bambini possono rifiutarsi di abbandonare. Possono, quindi, mostrare un atteggiamento non collaborativo verso le cure, come difesa contro la regressione imposta dalla situazione. Al contrario, una passiva compiacenza può esprimere un senso d’incapacità a conservare lo stato più maturo raggiunto. Entrambe le reazioni sono sfavorevoli e inutili sia dal punto di vista pratico, del trattamento medico del corpo malato, sia per il generale sviluppo mentale e psicologico.

La diagnosi di tumore, l’esperienza di malattia fissano una netta linea di demarcazione tra il prima e il dopo. La prospettiva temporale è una dimensione psicologica che risente enormemente delle variabili storico-socioculturali e delle particolari esperienze di vita, per esempio alcune condizioni ad elevato rischio psicosociale incidono fortemente sull’orientamento dei bimbi che non riescono a bilanciare la loro prospettiva temporale tra passato e futuro.

Questo porta a una scarsa rappresentazione delle prospettive future e a un rifiuto del passato in quanto connotato troppo negativamente. Questo tipo di vissuto temporale è assolutamente anomalo per un bambino e porta con sé una notevole perdita della spensieratezza infantile. Alcuni bambini si aggrappano al passato come per non volere rinunciare alla vita normale, altri invece, per il trauma della diagnosi, sembrano dimenticare completamente il passato difendendosi così dal ricordo dei giorni felici. Focalizzarsi sul presente permette di adattarsi all’incertezza e far fronte all’urgenza. Questi bambini possono diventare impazienti, non tanto per l’attesa di un prossimo momento piacevole, quanto per la paura che possa accadere qualcosa di peggiore: l’attesa si configura così come un crescente stato di allerta, misto di ansia e di paura.

Quando le frasi al futuro, poi, sono al condizionale e accompagnate dal “se”, non si può avere fiducia nel domani. Il passato è importante nella costruzione dell’identità individuale ma anche le altre dimensioni temporali sono importanti e dovrebbero essere presenti nella vita del bambino. Il presente, in particolare deve essere compreso e deve potere essere narrabile, nonostante le difficoltà connesse alla malattia, nella certezza che un tempo “ignorato” rimane un buco nero dell’esistenza del bambino; recuperare il futuro poi significa riappropriarsi della progettualità, della speranza proiettarsi oltre la malattia e la sofferenza che essa induce. 

Illustrazione 4 - Psicologia

La percezione del proprio aspetto fisico 

Un altro aspetto di cruciale importanza, e che incide fortemente sullo sviluppo psicologico del bambino è la percezione del proprio aspetto fisico. L’evento cancro è accompagnato, oltre che da frequenti esperienze di dolore, anche da un evidente cambiamento del piccolo corpo sia in rapporto alla malattia sia in rapporto agli interventi diagnostici e ai trattamenti terapeutici.

I cambiamenti sul piano fisico hanno un ruolo fondamentale nell’esperienza del bambino sia che abbiano un effetto temporaneo, sia permanente. La malattia induce una brusca trasformazione del modo di considerare e trattare il corpo del bambino prima oggetto di tenerezza e cure delicate, tese a salvaguardare la morbidezza della pelle, l’estetica, l’integrità generale corporea, con lo scopo di potenziare il vissuto soggettivo d’identità, poi fatto oggetto dell’introduzione, spesso aggressiva, di farmaci e altri presidi terapeutici, talora con scarso rispetto delle esigenze di riservatezza e di gestione autonoma del sé corporeo.
 

L’accettazione della nuova immagine di sé 

Relativamente alle modificazioni corporee legate alla malattia e al trattamento, si può osservare in alcuni casi la presenza di angosce dismorfofobiche molto intense generando sentimenti di estraneità al sé.

Quando la nuova immagine di sé sarà accettata, si avranno sentimenti di lutto e perdita della propria integrità fisica e mentale. L’interazione continua tra fisico e psichico è l’elemento costitutivo fondante di ogni essere umano, Freud stesso ricorda che l’io è primariamente un io corporeo. Nel bambino l’unità psicofisica è ancora maggiore che nell’adulto, diventa così possibile che un insulto traumatico del corpo sia sperimentato come lesivo della personalità e in quanto tale danneggiare l’integrità del sé, gettando le basi per un vissuto di distruzione e di morte collegato al corpo che è sentito come privo d’integrità cutanea.

La pelle “colabrodo” per le continue pratiche invasive sorregge l’immagine di un contenitore mentale bucato, in cui le paure si concretizzano. Diventa così problematica la distinzione tra corpo e psiche, fra realtà e fantasia; personalizzare significa non solo che la psiche prende sede nel corpo, ma anche che tutto il corpo finisce per diventare dimora del sé.

I bambini malati di tumore devono riuscire ad integrare nel complesso processo di definizione della propria identità personale un’immagine del corpo alterata dalla malattia: si tratta di un compito emotivo, oltre che cognitivo, in cui è altrettanto fondamentale che i segni della malattia non diventino i simboli principali di questa identità. La malattia diventa per questi bambini un’identità concreta, organizzata intorno al problema centrale del danneggiamento corporeo.

D’altra parte, le modificazioni dell’aspetto sono una fonte di elevato rischio per un cattivo adattamento psicologico e sociale dovuto alle attitudini della società verso le differenze fisiche visibili. L’immagine che il bambino ha di sé stesso è in parte reazione a ciò che gli altri dicono di lui: è frutto cioè, di quell’esperienza passiva all’inizio, che viene poi introiettata e trasformata in un valore dinamico indipendente. Questi piccoli pazienti sono ad alto rischio per lo sviluppo di difficoltà nelle relazioni con i pari e la vulnerabilità sociale. Durante l’infanzia e la fanciullezza nella società odierna l’aspetto fisico e il sentimento di accettazione sono importanti fattori predittivi del buon adattamento sociale, è stato riscontrato che una percezione positiva del proprio aspetto fisico è associata ad un abbassamento dei sintomi depressivi e ad un innalzamento dell’autostima.

Ci sono due tipi di comportamento che possiamo osservare nei bambini malati: gli “stili di reazione” e quelli di “relazione”. Tra gli stili di reazione individuiamo il pianto. C’è un pianto normale: di protesta e di tipo consolatorio; e un pianto patologico: noioso, monotono, monocorde legato alle angosce di morte (depersonalizzazione, derealizzazione, disgregazione). Tra gli stili di relazione ritroviamo una forte dipendenza, un eccesso di autonomia, un’ubbidienza automatica (falso sé) nel senso del negativismo o della compiacenza, la ribellione e/o opposizionismo. Il comportamento di eccessiva dipendenza è quello che il bambino mette in atto quando contatta bisogni, paure ed esperienze che lo spaventano e lo disorientano. Vanno male i processi di separazione. Si attivano e si sperimentano nuclei di lutto non elaborati. Per anni la madre, presa dalla paura di perdere il bambino, lo trattiene o lo spinge in avanti. Il bambino fa un’unica esperienza: “Io non conto nulla”.

Quando questa dinamica si attiva nell’età dello svezzamento (5-6 mesi), perché ci sono ansie e angosce di morte della madre, il bambino organizza una personalità depressiva per perdita, abbandono e rifiuto. Il bambino attiverà un’aggressività distruttiva. L’eccesso di autonomia nel bambino, invece, è dovuto alla depressione che produce un eccesso di maniacalità come difesa alla condizione patologica. L’eccesso di autonomia non è, dunque, espressione di una maturità anticipata ma di una difficoltà/disordine nello sviluppo degli affetti. Il bambino inibito è impacciato e richiama l’eccessiva compiacenza che rende il bambino un “pinocchietto” o “marionetta”. Il bambino che si isola è nel lutto, per cui vuole stare da solo. È un bambino che ha la morte dentro. Le relazioni con gli altri non sono previste. Sono bambini vuoti che non giocano perché le angosce di morte che sperimentano li svuotano delle energie vitali. I bambini aggressivi e/o oppositivi sono bambini che agiscono gli stati emotivi. Sono bambini che esprimono la loro rabbia nell’agito, nel picchiare, nel dire parolacce, etc.
L’agito diventa uno strumento relazionale formidabile: agiscono - specie in adolescenza - gli stati affettivi, non mentalizzati, attraverso l’uso del corpo. La risposta più sana alla malattia è quella che in letteratura viene indicata con il termine di resilienza. La resilienza richiama la flessibilità e la capacità di adattamento positivo in risposta all’evento traumatico e inatteso della malattia. La resilienza attiene al concetto molto caro a Crocetti di “benessere bambino”: la capacità del bambino di incontrare un’esperienza di benessere e di godimento seppure nella sofferenza.
 

Il superamento delle angosce di morte 

La possibilità di superare l’angoscia di morte da parte del bambino risiede essenzialmente nella capacità di contenimento di tale angoscia, manifestato dagli adulti con cui interagisce in questa fase. Operando una distinzione tra bambino e adolescente, si può affermare che il bambino può esprimere e superare l’angoscia legata alla sofferenza fisica e alla paura per il suo progressivo peggioramento, mettendo in atto quella forma di simbiosi con i genitori, già sperimentata nelle prime tappe della sua esistenza e che lo ha garantito dai pericoli.

Solo l’insopprimibile ansia dei genitori lo costringerà ad agire una stessa protettività nei loro confronti, negando la consapevolezza del suo stato. Infatti, i genitori, a causa delle loro paure ed insicurezze sono portati a tenere lontano dai propri piccoli perfino l’idea della morte. È evidente, dunque, quanto sia illusorio escludere i bambini dalla partecipazione alla malattia, propria e altrui. È ancora più illusorio negare la morte quando il bambino la sperimenta intorno a sé, o come nel caso dei bambini malati, in sé, con l’unico risultato di impedire loro di esprimere emozioni e sentimenti. 
 

Bibliografia

 
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  • G. Lerner, Ho vissuto la tua morte, Ed. Giunti, Firenze 1997, p. 109
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  • Guarino, Op. Cit., p. 71.
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