tratto dal Libro "Una Mela al Giorno", casa editrice Priuli & Verlucca
Il termine Diabete mellito deriva in parte dal greco (diabaino = passare attraverso) e in parte dal latino (mellitus = dolce): chiaro riferimento al fenomeno, già conosciuto nell’antichità, del passaggio di sostanze dolci (glucosio) nelle urine.
Arateo di Cappadocia (ca. 120-200 d.C) ne ha dato una descrizione valida ancora oggi <Il diabete è una malattia importante… ha carattere cronico e si sviluppa lentamente… la sete è implacabile e le copiose bevute sono più che uguagliate dalle profuse minzioni… l’urina scorre via ed è impossibile porre un limite al bere e all’urinare… se egli si ferma anche per pochissimo e smette di bere, la bocca diventa riarsa e il corpo secco…>. Ovviamente si riferiva a un diabete completamente scompensato, quale adesso non si vede quasi più. I dottori Banting e Best hanno scoperta l’insulina soltanto nel 1923.
Sotto il termine di diabete mellito sono raggruppati quadri clinici molto diversi dal punto di vista eziologico, fisiopatologico, prognostico e terapeutico, accomunati soltanto dall’aumento del livello di glucosio nel sangue (iperglicemia), essendo ridotta la sua utilizzazione da parte delle cellule. Ciò accadere per due condizioni, che spesso coesistono:
- per una carente produzione, assoluta o relativa, di insulina;
- per una ridotta efficacia dell’insulina sui tessuti periferici, detta insulino-resistenza.
Le principali funzioni dell’insulina sono:
- promuovere il trasporto del glucosio attraverso la membrana cellulare di alcune cellule;
- stimolare la formazione di glicogeno nel fegato e inibire la conversione di altre sostanze in glucosio;
- stimolare la sintesi e l’immagazzinamento dei grassi nelle cellule adipose, nel muscolo scheletrico e nel fegato, prevenire la lipolisi (la scissione dei grassi) attraverso l’inibizione dell’enzima lipasi ormonosensibile;
- favorire, in presenza dell’ormone somatotropo, la sintesi delle proteine partendo dagli aminoacidi.
Quindi partecipa non soltanto al metabolismo degli zuccheri (in particolare del glucosio), ma anche a quello dei lipidi e delle proteine.
I differenti tessuti rispondono in maniera differente all’azione dell’insulina, dipendendo la loro sensibilità dai livelli dei recettori insulinici espressi sulla superficie cellulare e dalla presenza o meno di trasportatori insulinodipendenti del glucosio.
Il glucosio è una piccola molecola idrofila che può circolare liberamente nel sangue, ma non può attraversare la membrana delle cellule che idrofoba, essendo costituita da lipidi. Per entrare nelle cellule ha bisogno della presenza di proteine specfiche, inserite nella membrana, chiamate appunto trasportatori di glucosio, le più importanti delle quali sono denominati GLUT, di cui esistono otto differenti tipi.
Il GLUT1 è espresso in tutti i tessuti e in tutte le linee cellulari, ed è insulino-indipendente: non dipende, cioè, dalla presenza dell’insulina per svolgere il suo compito di trasportatore di glucodio, cosa che spiega la maggior quota della captazione basale del glucosio.
Il GLUT3, anch’esso non insulino-indipendente, è presente soprattutto nel sistema nervoso centrale, dove le concentrazioni di glucosio sono più basse che nella circolazione generale, fornendo un meccanismo di efficace captazione del glucosio da parte delle cellule nervose.
Il GLUT4 è invece insulino-sensibile e si trova quindi nei tessuti che rispondono all’effetto dell’insulina, in particolare nel muscolo scheletrico, nelle cellule adipose e nel cuore.
In condizioni basali il GLUT4 è contenuto in vescicole all’interno della cellula e soltanto durante la stimolazione insulinica viene in superficie permettendo una rapida e massiva entrata di glucosio.
Anche la contrazione muscolare esercita un effetto favorevole al trasporto del glucosio nelle cellule muscolari, facendo emergere i GLUT 4 a livello di superficie.
Il movimento si comporta praticamente come l’insulina, dando una spiegazione del perché l’esercizio fisico è considerato una componente essenziale del trattamento del diabete mellito.
In un soggetto sano la secrezione dell’insulina da parte delle cellule beta del pancreas risponde in maniera molto precisa alle variazioni della concentrazione plasmatica di glucosio, in modo che questa rimanga entro i limiti fisiologici.
Quando il rapporto glicemia-insulina non si svolge secondo queste modalità fisiologiche siamo in presenza di un diabete mellito.
Le forma di gran lunga più frequente di diabete mellito, rappresentando circa il 95% di tutti i casi, è quello definito di tipo 2, detto anche, secondo la vecchia denominazione, diabete mellito non insulino-dipendente o NIDDM (Non Insulin Dependent Diabetes Mellitus), per il motivo che, almeno inizialmente, non necessita di terapia insulinica.
Alla base di questa forma di diabete esiste una predisposizione genetica, come dimostra l’elevata incidenza fra parenti di primo grado e la quasi assoluta concordanza fra i gemelli monoculari.
Tuttavia la sua manifestazione clinica è notevolmente amplificato dallo stile di vita, in particolare abbondanza di cibo e mancanza di attività fisica.
Si ritiene che attualmente vi siano al mondo circa 200 milioni di diabetici tipo2, ma si prevede che, continuando l’attuale tendenza, il panorama mondiale di tale forma morbosa. sia destinato a dilatarsi a dismisura, passando nel prossimo ventennio a circa 300 milioni.
Si pensa che a contribuire maggiormente a tale espansione siano i Paesi in via di sviluppo, i quali, dopo l’Aids, la malaria e la Tbc, conosceranno un’altra epidemia, questa volta non infettiva, ma altrettanto pericolosa: il <pigro> pancreas di popolazioni cronicamente iponutrite, difficilmente potrà reggere all’impatto con l’adozione delle peggiori abitudini alimentari occidentali.
Attualmente in Italia vi sono ufficialmente circa due milioni di diabetici tipo2 (ma si presume che altrettanti siano coloro che non sanno ancora di esserlo), con una incidenza nei soggetti ultra quarantacinquenni del 3,7%. La previsione è che nel 2025, per il propagarsi di errati stili di vita e il prolungamento della vita media, i diabetici italiani saranno cinque milioni. Quel che è peggio, si sta assistendo alla rapida diffusione di tale patologia anche fra le fasce più giovani della popolazione, quale conseguenza della micidiale combinazione di una vita sempre più sedentaria, davanti a tv e computer, e di un’alimentazione sempre più scorretta. Il diabete mellito tipo 2 è una delle patologie più strettamente correlata al cosiddetto benessere: pur avendo alla base alterazioni genetiche senza il concorso di fattori ambientali modificabili (questa alterazione metabolica potrebbe rimanere sempre allo stato latente, cioè mai manifestarsi clinicamente, oppure manifestarsi più tardivamente e in modo molto più lieve. Il perdurare della esposizione di un individuo ai vari fattori ambientali spiega perché questa forma di diabete tende a comparire in età adulta.
Il messaggio cruciale è che, se si vuole sperare di contenere questa che ormai sta diventando un’epidemia mondiale, questa forma di diabete può essere evitato oppure molto attenuato nelle sue manifestazioni cliniche e nei danni che può produrre. Infatti per manifestarsi clinicamente e per svilupparsi è necessario l’intervento di fattori ambientali esterni che, singolarmente o sinergicamente, contribuiscono ad aumentare l’insulino-resistenza. In particolare l’obesità addominale, per i motivi già esposti, che precede la comparsa del diabete in circa l’80% dei casi, e la vita sedentaria, che ne aumenta l’incidenza di 2-4 volte. Fanno comunque la loro parte anche gli errori dietetici, lo stress, il fumo, l’abuso di alcol.
L’Oms è impegnata in un’opera di capillare sensibilizzazione affinché il concetto della prevenzione del diabete mellito e delle sue complicanze, basato sull’adozione stili di vita corretti, divenga consapevole e permanente patrimonio culturale delle popolazioni di tutti i Paesi aderenti.
È necessario intervenire molto precocemente nel periodo che precede anche di 10-15 anni la malattia conclamata, nel cosiddetto pre-diabete. Già in questo periodo, infatti, cominciano a prodursi le complicanze ai vari organi e aumenta progressivamente l’insufficienza delle cellule beta pancreatiche, quelle che producono insulina.
È giustificato, quindi, l’impegno di identificare i soggetti a rischio, al fine di adottare il più precocemente possibile i provvedimenti di prevenzione.
Sarebbe possibile predire con largo anticipo - anche dieci anni - la propensione verso questa patologia, sondando il terreno costituzionale con prove da carico di glucosio, atte a evidenziare un’eventuale <vena> sotterranea. Qualora questa venga evidenziata, la strategia vincente è quella di agire con molta risolutezza nel combattere tutti gli altri fattori di rischio: quindi non accontentarsi di ridurre il fumo, ma abolirlo, allontanandosi anche da quello passivo; non solo diminuire il colesterolo, ma partarlo a valori decisamente bassi; non solo abbassare la pressione entro i limiti border line ma tendere ai 120/70; non perdere solo qualche chilo di peso, ma riportare il proprio IMC e la propria circonferenza addominale entro i valori normali, e così via.
L’American Diabetes Association (ADA) consiglia di sottoporre a glicemia a digiuno e dopo carico di glucosio tutti i soggetti con età superiore ai 45 anni, gli obesi, i parenti di primo grado di diabetici, gli appartenenti a etnie ad alto rischio di malattia, le donne che abbiano partorito figli macrosomici (di peso uguale o superiore ai 4 Kg) o che abbiano avuto diabete gestazionale, i dislipidemici e gli ipertesi.
La seconda forma di diabete come diffusione, ma a grandissima distanza dalla prima, è il diabete tipo1, precedentemente denominato insulino-dipendente o IDDM (Insulin Dependent Diabetes Mellitus) in quanto necessita sempre di terapia insulinica. Alla base di questa vi è la distruzione delle cellule beta pancreatiche da parte di un processo autoimmune, che insorge in risposta ad insulti ambientali (batteri, virus, sostanze tossiche), in presenza di una predisposizione a una iperattività del sistema immunitario, che porta a un profondo deficit di insulina. Caratterizza tale processo la presenza in circolo di vari auto-anticorpi che determinano la progressiva distruzione delle cellule beta (fino a più del 90%), a cui consegue un progressivo deficit insulinico e la necessità assoluta di una terapia insulinica sostitutiva.
Esiste anche una forma di diabete tipo 1 senza alcuna evidenza di autoimmunità e perciò definito idiopatico, che vuol dire <da causa ancora non nota>.
La forma auto-immune si presenta più frequentemente nei bambini e nei giovani (spesso dopo una malattia infettiva stagionale), ma può esordire in qualsiasi età, anche nell’ottava o nona decade. A volte si associa ad altri disordini autoimmuni, quali il morbo di Basedow, la tiroidine di Hashimoto, la malattia di Addison, la vitiligine, l’anemia perniciosa.
Anche in questa forma di diabete vi è una fase silenziosa che precede la malattie vera e propria, senza sintomi clinici, ma segnata già dalla micidiale presenza nel siero degli autoanticorpi.
I soggetti a rischio potrebbero essere identificati con largo anticipo sull’esordio della malattia, se si pensa a una simile eventualità. È stato suggerito di dosare gli auto-anticorpi nella fascia d’età sotto i 5 anni, essendo i primi a comparire.
Data l’insicurezza dei fattori inducenti e scatenanti il diabete tipo1, una strategia preventiva trova poco spazio.
È interessante un’interpretazione evoluzionistica avanzata per spiegare la genesi di questi due tipi di diabete: il tipo 1 sarebbe più frequente in quelle popolazioni che ai loro albori, essendo nomadi, dovevano avere un sistema immunitario molto vivace, mentre il tipo 2 colpirebbe maggiormente soggetti i cui avi hanno dovuto superare lunghe carestie, per cui hanno selezionato geni risparmiosi, con una tendenza metabolica all'iperinsulinemia per assicurarsi scorte di grasso.
Alcune forme di diabete mellito potrebbero essere secondarie ad alcune condizioni cliniche particolari, quali patologie pancreatiche di tipo infiammatorio o neoplastico (inclusa resezione chirurgica), malattie endocrine (morbo di Cushing, feocromocitoma, che è un tumore delle ghiandole surrenaliche), forme iatrogene, cioè dovute ad alcuni farmaci: cortisonici, antidepressivi, diuretici tiazidici, betabloccanti nel cosiddetto pre-diabete.
I POSSIBILI DANNI D’ORGANO ASSOCIATI AL DIABETE MELLITO
Gli alti livelli di glicemia possono provocare danni praticamente a tutti gli organi. Le complicanze incidono in maggior misura nel diabete tipo2 , essendo questo più frequentemente associato ad altri fattori di rischio, quali l’obesità, la dislipidemia e l’ipertensione arteriosa.
Va sempre più affermandosi il concetto che il diabete tipo2 dovrebbe essere considerato più una patologia di interesse cardiologico che endocrinologico.
Tutti e due i tipi di diabete mellito comportano un aumento del rischio coronario, collegato più con la durata che con la severità del diabete, e sono equiparati fin dall’inizio ai soggetti che hanno già superato un infarto. Il rischio di malattia coronarica è doppio nel paziente diabetico di sesso femminile rispetto a quello di sesso maschile. I livelli glicemici cronicamente alti producono alterazioni alle arterie sia di medio e grosso calibro, macroangiopatia, che di piccolo calibro, microaangiopatia.
La macroangiopatia non è un processo specifico del diabete, essendo assimilabile all’aterosclerosi. La disfunzione endoteliale determinata dall’iperglicemia e la glico-ossidazione delle lipoproteine LDL promuovono un’accellerazione del processo aterosclerotico che interessa in modo precipuo le arterie del cuore, del cervello e degli arti inferiori, determinando la cardiopatia ischemica, la vasculopatia cerebrale e la arteriopatia periferica. È peculiare dei diabetici l’ischemia miocardica silente, verosimilmente a causa della concomitante neuropatia che riduce, fino ad annullarlo, il dolore anginoso.
La microangiopatia è invece tipica, anche se non esclusiva, del diabete ed è caratterizzata da un ispessimento della membrana basale dei capillari, da una proliferazione della matrice ialina delle arteriole e da un’alterazione strutturale della parete venulare. È la prima causa di nefropatia (la maggiore responsabile di insufficienza renale terminale e dialisi), di retinopatia (la seconda causa di cecità nel mondo occidentale), di neuropatia (caratterizzato dalla degenerazione del sistema nervoso periferico e di quello simpatico), con una alta gamma di manifestazione cliniche, fra le quali il deficit della funzione sessuale.
Col diabete coesistono spesso altre alterazioni metaboliche che contribuiscono a rendere il quadro clinico particolarmente aterogeno. In particolare:
- l’ipertensione arteriosa, il maggior fattore di rischio aggiuntivo di aggravamento delle lesioni micro- e macro-vascolari, tanto che proprio dalla correzione di questa patologia dipendono gran parte delle possibilità di prevenire o rallentare la progressione delle complicanze vascolari, in particolare la nefropatia. È, quindi, necessario essere particolarmente aggressivi nel trattamento dell’ipertensione nei diabetici;
- la dislipidemia, tipicamente rappresentata da ipertrigliceridemia, da alti valori di lipoproteine VLDL e LDL e da bassi valori di HDL;
- le alterazioni dell’assetto coagulativo che esprimono un quadro pro-coagulativo;
- le alterazioni funzionali piastriniche, che accentuatuano l’aggregazione e l’adesione piastrinica con conseguente tendenza alla trombosi e a una ridotta fluidità di membrana;
- l’aumentata produzione di radicali liberi, dovuta l’auto-glicazione del glucosio, tipicamente associato all’ossidazione in un processo denominato glicossidazione;
- la disfunzione endoteliale, per cui prevalgono i fattori vasocostrittori, pro-trombotici e pro-infiammatori, che partecipano all’instaurarsi della micro- e della macro-angiopatia e alla progressione del processo aterosclerotico. Il diabete nelle donne sembra annullare gli effetti positivi dovuti agli estrogeni, probabilmente perché l’iperglicemia riduce la produzione di ossido nitrico mediata dall’estradiolo da parte dell’endotelio;
- l’infiammazione, che ha un ruolo nell’iniziazione e nella progressione dell’aterosclerosi.
TRATTAMENTO DEL DIABETE MELLITO
Quando una persona scopre di essere diabetica, per prima cosa deve valutare la propria situazione nei confronti del proprio IMC (Indice di Massa Corporea). Se è in sovrappeso o obeso, come capita molto spesso, è assolutamente necessario che questa persona adotti un regime alimentare che lo riporti gradualmente verso il suo peso ideale. Provvedimento che da solo potrebbe essere sufficiente a riequilibrare il metabolismo glucidico, facendo <sparire> il diabete e avere un effetto positivo anche su tutte le altre alterazioni metaboliche che frequentemente accompagnano il diabete.
Il diabetico obeso, infatti, ha una ridotta esposizione dei recettori insulinici sulle cellule adipose <globose>, cosa che accentua la resistenza insulinica. Tale alterazione viene normalizzata con la perdita di peso e la conseguente riduzione delle dimensioni degli adipociti.
È ormai un dato consolidato che una riduzione del peso comporta una migliore utilizzazione del glucosio e una riduzione dell'iperinsulinemia negli obesi, sia diabetici che non diabetici, e che il miglioramento dell’insulino-resistenza ottenuto con la riduzione del peso corporeo è certamente superiore a quello ottenuto con un il solo approccio farmacologico.
Nessuna componente del trattamento del diabete mellito tipo2 è più importante del raggiungimento e del mantenimento del peso corporeo ideale mediante una dieta sana.
PASTA E PANE NON PIù TABù
Stare a dieta, si sa, non è piacevole per nessuno; ancor meno starci per tutta la vita, come è necessario per i diabetici. Ulteriore motivo di malessere è dover seguire una dieta contrastante con le radicate abitudini alimentari.
I diabetici erano da sempre abituati a sentirsi ripetere le solite raccomandazioni: <pochissima pasta, pochissimo pane, niente zucchero, niente dolci>. Era l'imperante dieta ipoglicidica, ed era anche la negazione delle abitudini alimentari del nostro Paese, massima espressione della dieta mediterranea, che nei glucidi ha il suo fondamento.
Ne conseguiva una scarsa adesione alla dieta e grosse difficoltà per il controllo della malattia.
Ma questa è ormai storia.
Da qualche tempo ormai, sotto la spinta soprattutto delle Società diabetologiche anglosassoni, si è assistito alla piena riabilitazione di alimenti precedentemente messi all'indice. Riabilitazione non ispirata da motivi umanitari, per rendere la vita <meno amara>, ma da precise acquisizioni scientifiche circa il metabolismo delle tre maggiori classi di nutrienti (glicidi, lipidi e proteine) in rapporto alla malattia diabetica, in particolare del diabete non insulino-dipendente, che maggiormente risente di un trattamento dietetico.
I nuovi concetti, pur confermando che in caso di sovrappeso l’apporto calorico deve essere limitato, hanno radicalmente modificato la struttura qualitativa della dieta precedentemente consigliata, riavvicinandola a quella raccomandata per la popolazione generale.
È stato infatti dimostrato che concedendo un'abbondante quota glicidica (dal 55 al 60 % della razione totale giornaliera) si ottiene un miglior controllo della glicemia, consentendo, nello stesso tempo, la riduzione sia della quota lipidica (25-30%), sia della quota proteica (10-15 %), ottenendo altri due risultati: la prevenzione delle dislipidemia e del sovraccarico renale.
I cibi ricchi di carboidrati vengono ora considerati <buoni>, <abbastanza buoni> o <cattivi> per i diabetici, non più sulla base del loro contenuto zuccheri, ma per la proprietà dimostrata di produrre maggiore o minore glicemia dopo la loro ingestione.
Il concetto di indice glicemico è stato introdotto già da molto tempo da Jenkins dopo l'osservazione sperimentale in vivo che alimenti contenenti lo stesso tipo e la stessa quantità di carboidrati producevano risposte glicemiche differenti.
Questa proprietà dipende da molti fattori (manipolazione della materia prima, contenuto in fibre, grado di cottura) che condizionano la rapidità di assorbimento intestinale.
In linea di massima si può dire che quanto più un alimento è grezzo, tanto più è lento il suo assorbimento, tanto più è basso l'indice glicemico, tanto più è buono.
La farina, il pane, la pasta, i biscotti integrali sono migliori dei prodotti raffinati. Sono nella lista dei buoni: la frutta fresca, tutta la verdura (in particolare i legumi), il latte scremato, lo yogurt naturale. Lo stesso saccarosio (lo zucchero comune) non è più considerato un alimento proibito se non usato da solo, come dolcificante, ma <nascosto> in altri nutrienti.
Tra gli alimenti a basso indice glicemico si trova la pasta (in particolare, per motivi di carattere tecnologico, gli spaghetti), ma solamente se di grano <duro e al dente>, mentre il pane classico presenta un indice glicemico più elevato, probabilmente per l’uso di farine di grano tenero, si per la cottura in forno e della sua struttura finale spugnosa che rende più rapido l’assorbimento.
Ad alto indice glicemico sono alcune varietà di riso con minore tenuta alla cottura, mentre altre varietà (come le cosiddette <parboiled>, specie se cotte <al dente>) presentano una risposta glicemica più favorevole. A basso indice glicemico sono anche i carboidrati dei legumi e della frutta (specie delle mele e delle pere) e della verdura (pomodori).
Secondo recenti studi esisterebbe una significativa correlazione inversa tra l’indice glicemico dei carboidrati e il valore della colesterolemia HDL, notoriamente un importante fattore protettivo della malattia coronaria, forse per un effetto della glicemia stessa sulla sintesi e l’utilizzazione (e quindi la concentrazione plasmatici) dei trigliceridi.
Ed è stato anche messo in evidenza , specie fra i pazienti obesi, che il consumo di alimenti a elevato indice glicemico si associa alla presenza di valori più elevati di proteina C reattiva, un indice di infiammazione, che come è noto rappresenta un importante predittore indipendente di rischio cardiovascolare. Appare quindi raccomandabile la scelta di alimenti a indice glicemico moderato o basso.
Si consiglia di consumare un’elevata quantità di frutta e verdura (soprattutto verde); più cibi contenenti fibre (per la benefica azione sul metabolismo glicidico precedentemente descritta) e cereali integrali; più pesce contenenti acidi grassi omega3 e carne magra; privilegiare i lipidi vegetali e di avere un apporto proteico che sia per metà di provenienza animale e per metà di origine vegetale.
Evidenze epidemiologiche indicano che una moderata quantità di alcol (15-25 g/die) è associato a una riduzione del rischio cardiovascolare, esercitando un effetto benefico sul profilo della lipoproteine plasmatiche, aumentando le HDL. Una quantità maggiore aumenta i trigliceridi. L’astensione dall’alcol è invece raccomandata nei pazienti diabetici con ipertrigliceridemia.
Non vi sono dimostrazioni al momento che l’aggiunta di integratori antiossidanti sia in grado di ridurre le complicanze del diabete.
Il Diabete Mellito

A cura del Dr. Antonio Tripodina
Endocrinologo Medico Chirurgo, specialista in Endocrinologia - DiabetologiaL'informazione presente nel sito deve servire a migliorare, e non a sostituire, il rapporto medico-paziente. In caso di disturbi e/o malattie rivolgiti al tuo medico di base o ad uno specialista.
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