A chi rivolgersi in caso di sospetta demenza?

Il percorso diagnostico per la demenza deve necessariamente vedere coinvolte le due figure del medico di famiglia, per la prima fase di screening, e del neurologo per la seconda fase di conferma e di diagnosi differenziale all'interno delle demenze.

La prima fase di screening può essere gestita infatti in buona parte dal medico di famiglia, al quale compete non solo di formulare il sospetto diagnostico ma ancor più di escludere che un deficit cognitivo possa dipendere da malattie internistiche (iper/ipotiroidismo, insufficienza epatica, renale o respiratoria, diabete ed ipertensione arteriosa, etc.) oppure  da abuso di assunzione di alcoolici o di altre sostanze o da esposizione a tossici ambientali. Il più utilizzato strumento di screening è il Mini Mental State Examination (MMSE) di Folstein, validato su una popolazione di soggetti normali di età compresa fra i 60 ed i 75 anni.  Bisogna tenere presente che i test di screening non sono strumenti che permettono da soli la diagnosi di demenza, ma possono quantificare il livello di deficit cognitivo individuale del paziente e documentare la presenza di ridotte funzioni cognitive in più domini, indirizzando in tal modo il soggetto ad un rigoroso iter diagnostico per la demenza.

Illustrazione 1 - Neurologia

 

E' possibile diagnosticare la demenza?

La diagnosi di demenza è prevalentemente una diagnosi clinica che, per  essere formulata correttamente, necessita di una diagnosi differenziale tra le varie forme. Infatti, quando si parla di  “sindrome demenziale” non si fa che un mero riferimento ad un’associazione di sintomi e segni clinici, indipendentemente dalle cause che li hanno prodotti. È nozione comune che la diagnosi “sindromica” di demenza iniziale è spesso tutt’altro che agevole in quanto la “soglia di percezione” di un lieve deficit cognitivo varia da soggetto a soggetto in rapporto al suo livello di scolarità.

In quante fasi si diagnostica la demenza?

Il primo step diagnostico deve consistere in un attento esame dello stato psicologico  del soggetto per escludere che si trovi in una temporanea condizione di demotivazione personale o di depressione, fattori che notoriamente incidono sul suo livello di attenzione e che potrebbero indurre alla erronea conclusione dell’esistenza di un deficit di memoria e di disturbo cognitivo. Dopo questa prima essenziale valutazione, il soggetto in esame va inquadrato dapprima sotto l’aspetto neurologico stricto sensu ossia alla ricerca di eventuali sintomi focali quali disturbi motori, sensitivi, della coordinazione, etc. e successivamente si può procedere con l’esplorazione neuropsicologica dei processi cognitivi analiticamente considerati (percezione, attenzione, linguaggio, memoria, ragionamento, etc.).

Quanto è importante l'anamnesi patologica?

L’approccio clinico al paziente con sospetta demenza si fonda innanzitutto sulla ricerca di eventuali antecedenti  familiari e quindi su un’attenta anamnesi patologica per scoprirvi la presenza di  fattori di rischio vascolari (ipertensione, diabete etc.), pregressi traumi, malattie infettive, malattie psichiatriche, abuso di assunzione di alcoolici o di altre sostanze.

L’indagine anamnestica deve essere altresì orientata alla scoperta  di eventuali fattori esogeni,  quale l'esposizione a tossici presenti nell'ambiente di lavoro, che possano essere invocati quali elementi causali. Nel raccogliere l’anamnesi fisiologica è necessario procedere ad un inquadramento socio-comportamentale del soggetto nella maniera più esaustiva possibile (livello di scolarità, attività di lavoro, interessi, passatempi e hobby, pensionamento, abitudini di vita). E’ importante, infine,  desumere di quali disturbi il paziente si lamenti soggettivamente.

Il passo successivo deve consistere in un’intervista accurata  sui suoi familiari  che miri ad evidenziare quale tipo di cambiamento hanno notato e da quanto tempo è iniziato;  ciò è fondamentale per stabilire, con il loro ausilio, esattamente lo stato preesistente del soggetto.

A cosa serve l'esame neurologico?

Generalmente, nella quasi totalità  di pazienti con demenza iniziale,  l’esame neurologico è del tutto negativo o comunque privo di aspetti di specifica rilevanza clinica. Pur tuttavia, esso  va eseguito con grande attenzione alla ricerca di segni neurologici specifici (sindrome extrapiramidale, iperreflessia profonda, deficit focali, disartria etc.) che potrebbero fornire informazioni di particolare valore diagnostico sulla natura della malattia.

Il momento topico dell’esame obiettivo del paziente con sospetta demenza si realizza nell’ambito della valutazione neuropsicologica. La Neuropsicologia clinica è, infatti,  la disciplina applicata che si occupa della valutazione e riabilitazione dei disturbi cognitivi insorti consecutivamente ad una lesione cerebrale vascolare o traumatica oppure ad un deterioramento intellettivo. La valutazione neuropsicologica si struttura attraverso il colloquio ed attraverso la somministrazione di test specifici.

Illustrazione 2 - Neurologia

Colloquio neuropsicologico e anamnesi: che differenza c'è?

Il colloquio, innanzitutto, consente di verificare l’attendibilità dei dati dell’anamnesi e poi focalizza in maniera specifica le effettive possibilità cognitive del soggetto. La valutazione del linguaggio  è condotta inizialmente utilizzando temi discorsivi di carattere generale (nomi dei familiari, dei principali personaggi della vita pubblica, tasso di conversione lira-euro, eventi di stretta attualità) e successivamente individuando argomenti di dialogo di reale interesse per il paziente. Il colloquio è funzionalmente teso ad evidenziare la qualità della memoria episodica (molto più che della memoria a breve termine), la presenza di anomie, se esiste coscienza di malattia, se vi è difficoltà ad apprendere nozioni nuove e se sussistono alterazioni della sfera psichica quali depressione, deliri di persecuzione, allucinazioni uditive, etc.

Che cosa sono i test neuropsicologici?

I test neuropsicologici devono esplorare tutte le aree cognitive. E’ consuetudine di aprire le batterie di test con il già citato strumento di screening  MMSE (Mini Mental State Examination), che è di rapida e facile esecuzione ed ha il pregio  di dare un criterio valutativo di orientamento delle funzioni generali, per poi  procedere con l’accertamento analitico di  tutti i domini cognitivi alla ricerca di eventuali alterazioni.

Il MMSE è uno strumento ideato per valutare, in ambito clinico, le capacità cognitive del soggetto; la sua somministrazione richiede 10-15 minuti. È costituito da 11 item tramite i quali vengono valutate in modo semplice le varie funzioni cognitive, ed in particolare l’orientamento temporale e spaziale, la memoria immediata (memoria di fissazione o registrazione), l’attenzione e calcolo, la memoria di richiamo, il linguaggio (denominazione, ripetizione, comprensione orale, comprensione scritta e generazione di frase scritta), la prassia costruttiva.

Vengono poi somministrati test neuropsicologici specifici per indagare singole aree  quali: memoria a lungo termine (Racconto Babcock, Figura di Rey, Test di Crovitz Schifmann, Coppie associate di parole, etc.);  memoria a breve termine (Span cifre e cubi, Memoria Visiva Immediata, Dual Task); funzioni logico-astratte (Raven CPM 47, Wisconsin Card sorting Test, Analogie, Giudizi verbali); funzioni esecutive e frontali  (Stime cognitive, TMT, FAB, Fluenza verbale, etc.); attenzione (Stroop test, attenzione visiva); funzioni visuo-costruttive, visuo-spaziali e visuo-percettive (Test di riconoscimento dei volti, Test di Street, BORB, Test di orientamento di linee, etc.); linguaggio (Denominazione visiva, Costruzione di frasi, Token test, etc.); prassia (Prassia d’uso, Prassia ideo-motoria, Prassia bucco-facciale). Nel corso della somministrazione dei test per l’analisi dei processi cognitivi il soggetto deve essere sottoposto ad un’attenta osservazione clinica per valutare  l’occorrenza e l’entità degli aspetti emotivi (ansia e/o depressione), la cui presenza contribuisce al giudizio diagnostico finale.
 

Cos'è la valutazione dello stato funzionale?

Parallelamente alla valutazione cognitiva deve  essere effettuata quella funzionale chiedendo al soggetto e ai suoi famigliari come vengono gestite le azioni del vivere quotidiano, allo scopo di determinare se e di quale entità esista una riduzione delle capacità lavorative, sociali o relazionali dell’individuo per determinare le singole necessità assistenziali e l’applicabilità di programmi terapeutici e riabilitativi. E’ intuitivo come la riduzione funzionale sia in larga misura soggettiva, dipendendo dall’occupazione e dalle usuali abitudini e compiti della singola persona, per cui si fa ricorso a strumenti standardizzati con i quali si riesce a determinare in modo oggettivo la misura delle abilità di un individuo di portare a termine attività concrete ed a ricoprire ruoli sociali.  Al riguardo, dopo la loro validazione nel corso di studi clinici controllati, viene ampiamente adottato l'uso della BADL (Basic Activity of Daily Living)   per la valutazione delle attività di base della vita quotidiana e della IADL (Instrumental Activities of Daily Living), che indaga otto attività del vivere quotidiano. L’autonomia in queste abilità definisce la possibilità di un individuo di vivere in modo autonomo al proprio domicilio. Tuttavia BADL e IADL sono ambedue poco sensibili ai disturbi funzionali nelle fasi iniziali della demenza, per cui è stato introdotto il concetto di attività avanzate della vita quotidiana (Advanced Activity of Daily Living - AADL), che sono rappresentate da quelle più complesse ed impegnative (hobby,  partecipazione ad attività sociali o culturali e le attività ricreative, viaggi, etc.). Per fare in modo che la valutazione dello stato funzionale sia diretta e non indiretta, basata cioè sulle informazioni fornite dai familiari, si ricorre al  PPT (Physical Performance Test) e al DAFS (Direct Assessement Functional Scale) che consentono una osservazione oggettiva delle reali capacità dell’individuo ad espletare compiti standardizzati che mimano le funzioni di base e strumentali della vita quotidiana.

Illustrazione 3 - Neurologia

 

Diagnostica strumentale: come funziona?

Si basa sulla clinica che deve sostanzialmente escludere la possibilità che la sindrome demenziale possa essere dovuta a cause trattabili (depressione, o sindromi, etc.). Prezioso è l’apporto del Neuroimaging fornito in prima istanza dalla TAC (Tomografia Assiale Computerizzata), utile per misurare lo spessore degli emisferi cerebrali, ed ancor più dalla Risonanza Magnetica funzionale dell’encefalo (RMf), che consente di ottenere un’immagine della struttura del cervello molto particolareggiata includendo la perdita progressiva di materia grigia nel cervello, dal "mild cognitive impairment" fino alla malattia di Alzheimer conclamata.  Inoltre, la SPECT, che valuta il flusso del sangue nel cervello (ridotto nei pazienti affetti dalla m. di Alzheimer).

Quali indagini di laboratorio eseguire in caso di demenza?

Per escludere che una demenza, evenienza invero molto rara, sia secondaria a patologie somatiche, metaboliche, endocrinologiche, infettive o a stati di intossicazione cronica è altamente raccomandato di utilizzare gli esami di laboratorio di screening generale congiuntamente ad un accurato esame fisico. Quali test di laboratorio specifici, sono stati proposti numerosi markers biologici per la conferma della diagnosi di malattia di Alzheimer, fra cui i più studiati sono il livello della proteina tau e del frammento solubile della proteina precursore dell’amiloide nel liquido cerebrospinale anche se la loro utilità clinica resta tutto sommata alquanto dubbia. Parimenti avrebbero scadente valore diagnostico le indagini genetiche focalizzate sulla ricerca dell’apolipoproteina E.

Un esame del liquor cefalo-rachidiano è sempre consigliabile, specialmente se il quadro demenziale esordisce prima dei 60 anni, così come nel caso di forme di demenza ad evoluzione rapida o atipica, in pazienti con malattie autoimmunitarie. Il liquor, nella maggior parte dei casi di Alzheimer, è normale; solo occasionalmente si dimostra un lieve aumento delle proteine. Un caso a parte è lo studio della dinamica liquorale in presenza di idrocefalo normoteso, per la cui diagnosi riveste ruolo prioritario la prova di sottrazione liquorale (Tap test) tramite puntura lombare.

Il tracciato elettroencefalografico è sempre raccomandato come esame di routine sebbene non offra un reperto caratteristico nelle demenze ed addirittura sia normale nelle fasi iniziali; ma negli stadi avanzati della malattia l’Elettroencefalogramma (EEG) fa generalmente rilevare un diffuso rallentamento del ritmo, con presenza di onde delta e theta.

Il ricorso alla TAC o alla RM consente di individuare tout-court  sia patologie cerebrali che possono essere causa di demenza potenzialmente reversibile (ematoma subdurale, neoplasie, idrocefalo normoteso) che lesioni vascolari del tipo di infarti lacunari multipli o diffuse alterazioni ischemiche della sostanza bianca (malattia di Binswanger). Ma le stesse indagini non sono altrettanto efficaci nel  confermare con certezza la diagnosi di malattia di Alzheimer in cui il quadro più caratteristico, ma solo nelle fasi più avanzate, è rappresentato dall'atrofia corticale temporo-parietale e dalla dilatazione dei ventricoli laterali. Ma è ben noto che un quadro di questo tipo è osservabile in molte altre forme di demenza ed anche in soggetti anziani non dementi. È ben ovvio quanto la Risonanza Magnetica sia di maggiore utilità diagnostica in quanto fornisce una migliore risoluzione di strutture piccole specificamente implicate nei processi mnesici, quali l'amigdala e l'ippocampo, ed inoltre consente di individuare piccoli infarti sottocorticali e alterazioni diffuse della sostanza bianca. Anche se non è di chiaro significato clinico, poiché tali reperti possono riscontrarsi anche in soggetti normali, una diffusa iperintesità del segnale nella sostanza bianca periventricolare è stata associata alla  m. di Alzheimer come elemento patognomonico. La RM funzionale, infine,  è di grande utilità nella diagnostica dell’idrocefalo normoteso in quanto consente lo studio della dinamica del flusso liquorale, che in questi casi è alterato o addirittura invertito.
 

Demenza e PET

La PET o tomografia a emissione di positroni (dall'inglese Positron Emission Tomography), a differenza di TC e RM che forniscono informazioni di tipo morfologico, consente di ottenere mappe dei processi funzionali cerebrali in quanto rileva particolari cambiamenti nel metabolismo cerebrale. Vengono utilizzati vari traccianti ad emissione di positroni per misurare differenti funzioni in specifiche aree cerebrali (metabolismo regionale del glucosio, il principale combustibile dei neuroni, flusso ematico regionale e metabolismo dell'ossigeno). L’aspetto estremamente interessante sotto il profilo diagnostico risiede nella peculiarità della PET che è in grado di rilevare anormalità metaboliche ancor prima della comparsa di manifestazioni cliniche di tipo demenziale. Per questa ragione, questa metodica di indagine è di particolare utilità nelle forme iniziali a sintomatologia lieve, nelle quali, come è stato già detto, il quadro TC o MRI può apparire completamente normale. Nell'Alzheimer è stata dimostrata una diminuzione del metabolismo del glucosio e del flusso ematico nei lobi temporali e parietali; questa diminuzione può essere evidenziata prima che la malattia sia clinicamente evidente e la sua entità è proporzionale alla gravità della demenza. Inoltre,  con l'aggiunta del contrasto PiB vengono evidenziati i siti e le forme dei depositi di beta-amiloide nel soggetto vivente perchè il marker radioattivo, il carbonio-11, si lega selettivamente a questo tipo di depositi. Con il progredire della malattia in aggiunta ai lobi temporali e parietali si rileva l’interessamento anche di altre aree. La PET presenta nella demenza vascolare un quadro anche abbastanza patognomonico rappresentato da anormalità focali ed asimmetriche mentre nella malattia di Pick evidenzia una diminuzione del metabolismo del lobo frontale. È opinione unanime di una affidabilità della PET del 90% nella differenziazione fra un soggetto normale ed uno demente.

Illustrazione 4 - Neurologia

Demenza e SPECT

La SPECT (Single-photon emission computed tomography) è un'altra metodica di neuroimaging che con l’utilizzo di radionuclidi ad emissione gamma fornisce informazioni 3D sulle funzioni cerebrali sotto forma di strati in sezione trasversale che consentono di valutare il flusso cerebrale, attraverso le variazioni del metabolismo del glucosio. Anche se la sua accuratezza diagnostica è minore della PET, la SPECT è abbastanza utile per una diagnosi differenziale tra le varie forme di demenza ma lo è ancor più per distinguere un paziente affetto da demenza da un soggetto non demente. Analogamente alla PET, la SPECT rivela nel 65% dei pazienti affetti da Alzheimer una diminuzione precoce del flusso ematico in sede temporo-parietale, anche nelle forme in fase iniziale. Per questa ragione, si fa ricorso a queste due indagini di neuroimaging funzionale nei casi dubbi o quando è necessario differenziare una demenza vascolare o fronto-temporale da una malattia di Alzheimer. 
 

Come diagnosticare l'idrocefalo normoteso?

Per ultimo, occorre citare le procedure diagnostiche specifiche per l’idrocefalo normoteso, in aggiunta naturalmente alla TAC e alla RM nella sua variante “funzionale”. Il posizionamento intraventricolare o nello spazio  sub-durale di un sensore a fibre ottiche collegato ad un trasduttore elettronico di pressione consente una valutazione dinamica della pressione intra-cranica (PIC), che nell’adulto è di circa 10-15 mm Hg.

Il monitoraggio della PIC per 24-48 ore fa rilevare, nel 10% dei casi di idrocefalo normoteso, un picco di pressione (con valore superiore a 20 mm Hg) prevalentemente notturno, della durata di qualche decina di minuti e che sarebbe la causa della progressiva dilatazione ventricolare. Altra procedura diagnostica in uso è il Tap Test che consiste nella sottrazione di 40-50 millilitri di liquor  dallo spazio subaracnoideo lombare. La positività al test è attestata da un immediato miglioramento clinico del paziente che però dopo un breve periodo ripeggiora; ciò consente non solo di confermare la diagnosi ma anche  di selezionare i pazienti con buone possibilità di miglioramento dopo il trattamento chirurgico con una derivazione liquorale che permetta la sottrazione continua del liquor e di conseguenza un duraturo miglioramento dei disturbi. Per ultimo va citata per il suo valore storico, anche se al presente  non vi è più completo accordo sulla sua reale utilità,  la cisternografia con radioisotopi.

Concludendo questo excursus sulle indagini strumentali, si può affermare che l’odierna disponibilità di metodiche di neuro-imaging sempre più raffinate fornisce dati suggestivi che consentono la stadiazione della demenza e la diagnostica differenziale fra le sue diverse forme, ma va ribadito che  la diagnosi consegue innanzitutto ad una corretta valutazione dal punto di vista clinico in un ben definito contesto anamnestico.
 

La demenza è una patologia cronica?

Le demenze sono caratterizzate da cronicità della durata media di una decade circa, con quadri evolutivi di  una certa variabilità, nei tempi e nelle modalità sintomatologiche, in dipendenza del loro tipo specifico e della “riserva cognitiva” che compete al singolo paziente. La malattia di Alzheimer, ad esempio, si  suddivide per convenzione in  una prima fase lieve cui fa seguito la fase Intermedia o moderata e quindi la fase avanzata o severa ma il tempo di permanenza in ciascuna di queste fasi è variabile da soggetto a soggetto anche di diversi anni. Analogamente, la demenza vascolare è caratterizzata da un peggioramento progressivo del quadro clinico “a scalini” rappresentando ogni scalino un nuovo evento ischemico o emorragico, che non è in alcun modo pronosticabile in termini temporali. Come si vede, un decorso standardizzato in stadi clinici, sebbene utile a fini nosografici, è abbastanza poco predittivo nei casi concreti. Al riguardo, lo strumento maggiormente utilizzato in ambito clinico e di ricerca è la Clinical Dementia Rating Scale (CDRS). Nel decorso relativamente lungo delle demenze, peculiarmente  il paziente va incontro ad un deterioramento progressivo delle funzioni cognitive di entità tale da indurre alterazioni del comportamento, della personalità e del funzionamento sociale per cui, nelle fasi intermedie e avanzate, necessita di continua assistenza personale. Ciò implica un gravosissimo carico assistenziale da parte dei familiari per cui essi, non a caso, sono definiti la "seconda vittima" della malattia, rappresentando contemporaneamente il fattore precipuo che può arginare il ricorso all'istituzionalizzazione in una struttura residenziale (casa protetta). Per questa ragione nell'ambito della valutazione del soggetto affetto da demenza, in qualsiasi stadio della malattia, è buona norma procedere anche con una valutazione quali/quantitativa dei familiari istruendoli sia sul quadro clinico che sui  comportamenti più appropriati da assumere nelle varie fasi della malattia. Viene così a stabilirsi un equilibrio dinamico e complesso, in genere abbastanza resistente e che va a rimodularsi in seguito ad un aggravamento ulteriore delle condizioni del paziente. In genere, ciò che può costituire motivo di rottura dell’equilibrio assistenziale è l’insonnia ed il vagabondaggio notturno. Ai deficit cognitivi e comportamentali, nelle fasi più avanzate si aggiungono infine complicanze mediche internistiche, che portano a una compromissione progressiva dello stato di salute.

Illustrazione 5 - Neurologia


Esiste una cura per la demenza?

Da quanto esposto fino ad ora emerge che la demenza, in ragione del suo pleomorfismo,  può essere variamente sottoposta a misure terapeutiche di maggiore o minore efficacia, ma anche quando non è guaribile essa è comunque curabile, soprattutto con interventi non farmacologici. Ciò che è veramente indispensabile è che, durante il decorso della malattia, esistano punti di riferimento ai quali la famiglia possa costantemente appoggiarsi man mano che si pongono nuovi problemi. In un numero limitato di casi, in cui la causa della demenza è una malattia reversibile (10-15%) c’è la possibilità di un ritorno alla normalità, grazie a interventi chirurgici o a opportuni trattamenti farmacologici. Negli altri casi inizia un percorso scandito dall’evoluzione della demenza lungo il quale è imperativo porsi obiettivi terapeutici specifici in grado di rallentarne la progressione e di migliorare alcuni dei sintomi più disturbanti. Coerentemente a questo obiettivo si deve porre in atto una globalità di interventi che mirano non solo al controllo dei deficit cognitivi  ed al miglioramento dello stato funzionale ma anche alla cura delle patologie sottostanti nell’ottica costante che, anche nel paziente più deteriorato, deve esserci sempre lo spazio e l’opportunità per migliorare le condizioni di vita. Valutiamo, pertanto, separatamente gli interventi farmacologici e quelli non farmacologici o riabilitativi.

Quali farmaci si usano per curare la demenza?

Dobbiamo premettere che nel trattamento delle demenze i farmaci si utilizzano nell’intento di perseguire due finalità precipue: cercare di migliorare i disturbi delle funzioni cognitive oppure tenere sotto controllo quelle alterazioni del comportamento indotte dalla malattia quali l’agitazione, l’aggressività, l’insonnia e la depressione.  Allo scopo di interferire nel declino cognitivo, negli anni passati si è fatto ricorso a numerosi farmaci, senza però una comprovata efficacia terapeutica. Dopo che la ricerca scientifica negli U.S.A.  dimostrò che nel cervello dei malati affetti da Alzheimer vi è un livello insufficiente di acetilcolina, che è il neurotrasmettitore maggiormente coinvolto nella comunicazione tra le cellule nervose e che fisiologicamente viene degradata dall’enzima acetilcolinesterasi,  si è cominciato a far ricorso a farmaci inibitori dell’acetil-colinesterasi puntando a mantenere nel cervello una più elevata concentrazione di acetilcolina integra. Pertanto, uno dei cardini odierni della terapia dell’Alzheimer è incentrato sul meccanismo della neurotrasmissione colinergica attraverso il contrasto alla deplezione dell’acetilcolina mediante farmaci quali il donepezil, la rivastigmina e la galantamina.

Purtroppo gli inibitori dell’acetil-colinesterasi hanno una efficacia clinicamente evidente solo in un numero limitato di pazienti inferiore al 50% ed esclusivamente nelle forme di malattia di Alzheimer di gravità lieve-moderata, ossia essi sono del tutto inefficaci nelle altre forme di demenza e nella malattia di Alzheimer in fase grave. Nei pazienti “responders” si possono osservare dei miglioramenti temporanei ed un rallentamento nella evoluzione della demenza. Va comunque ben tenuto in mente che il  loro uso non è esente da rischi per cui si richiede la costante sorveglianza da parte di  un medico specialista durante il periodo della terapia.

Essendo stato evidenziato nell’Alzheimer anche un malfunzionamento della neurotrasmissione glutamatergica, che contribuisce sia alla manifestazione dei sintomi sia alla progressione della malattia nella demenza neurodegenerativa, è stata introdotta in terapia la memantina che rappresenta il capostipite di una nuova classe di farmaci per il trattamento della demenza. Questo farmaco  si comporta dal punto di vista farmacodinamico come antagonista non competitivo del recettore postsinaptico dell'acido glutammico che viene indicato come NMDA in quanto prende il nome dalla molecola  dell’N-Metil-D-Aspartato, che ne modula l’attività di legame recettoriale col suo neurotrasmettitore primario ossia il glutammato.

Attraverso l’azione inibente sul legame con l’acido glutammico la memantina riduce in pazienti con m. di Alzheimer gli effetti dei livelli patologicamente elevati di questo neurotrasmettitore, che sono causa di una disfunzione neuronale da  ipereccitazione post-sinaptica, dimostrandosi così in grado di indurre effetti statisticamente significativi per i domini cognitivi, globali e funzionali anche in fase moderata-severa della malattia.

Altri farmaci quali zolpidem, benzodiazepine, clorpromazina, escitalopram, etc., possono aiutare a contenere i problemi di insonnia, di ansietà o di agitazione e di depressione con l’imperativo di evitare farmaci con effetti potenzialmente dannosi sul sistema nervoso centrale, se non strettamente necessari.

Illustrazione 6 - Neurologia
 

Quali sono gli interventi riabilitativi migliori contro la demenza?

Le strategie di trattamento multimodale della demenza prevedono oltre ai farmaci anche programmi di intervento riabilitativo basato non solo sulla psicologia cognitiva ma concepito secondo un approccio psico-sociale globale in grado di esercitare un’influenza anche sui sintomi non cognitivi, quali le alterazioni del ciclo sonno-veglia, gli aspetti emozionali, le turbe comportamentali e dell’alimentazione, e sul dominio funzionale attinente alle attività della vita quotidiana. L’effetto positivo di ciò, nei casi che rispondono al trattamento, si traduce in una reale possibilità di mantenere un più elevato livello di autonomia in grado di contrastare il progressivo deterioramento indotto dalla malattia. I programmi terapeutici non farmacologici hanno quindi lo scopo di sostenere ed attivare quelle funzioni mentali e fisiche non completamente deteriorate, intervenendo sulle potenzialità residue. Qui di seguito viene fornito un accenno a queste tecniche ponendo in evidenza che la loro efficacia è funzione di una accurata selezione dei pazienti in relazione al tipo e grado di demenza.

Cos'è la terapia di “riorientamento” nella realtà (ROT)?

La ROT (Reality Orientation Therapy) costituisce l’approccio multi-strategico più diffuso, basato su una metodologia ideata da Folsom nel 1958 e successivamente sviluppata negli anni ’60, come tecnica specifica di riabilitazione per i pazienti il cui deterioramento cognitivo rende difficile il contatto con la realtà. Si fonda sulle teorie cognitive che si pongono l'obiettivo di modificare comportamenti maladattativi e di migliorare il livello di autostima del paziente facendolo sentire ancora partecipe di relazioni sociali significative e riducendone la tendenza all’isolamento.

Questo intervento riabilitativo si prefigge in sostanza di “riprogrammare” il paziente per riacquisire l’attitudine ad orientarsi nel tempo e nello spazio, anche solo limitatamente all’ambiente in cui vive, e principalmente rispetto a se stesso ed alla propria storia.

Questa terapia viene somministrata secondo una duplice modalità: informale, che è quella principale, e formale che svolge un ruolo complementare alla precedente. La ROT informale prevede un processo di stimolazione continua da parte di personale sanitario addetto,  durante i loro contatti col paziente, che viene proseguita dai familiari o caregivers, per il resto dell’intera giornata, consistente nello stimolare nel soggetto  l’orientamento nel tempo, nello spazio e sulle persone. Mentre la ROT informale non ha un luogo dedicato ma viene somministrata ovunque il pazienti si trovi, diversamente la ROT formale  deve prevedere un setting  dedicato, ossia un contesto entro cui circoscrivere in modo stabile ed integrato l’attività riabilitativa, e che preferibilmente disponga di supporti audiovisivi.

E’ una terapia  di gruppo che ha luogo con sedute giornaliere con 4-6 pazienti, eleggibili alla terapia solo se il loro livello di deterioramento sia di grado lieve o moderato, durante le quali un operatore impiega una metodologia di stimolazione standardizzata consistente in una sorta di chiacchierata di gruppo in cui egli dirige il dialogo fornendo i temi e dando la parola e i pazienti aggiungono informazioni a ciò che il terapista o gli altri hanno detto. La ROT è una stimolazione iterativa del paziente rispetto alle coordinate spazio-temporali ed alla storia personale ed essendo peculiarmente fondata sul dialogo stimola la creazione e il consolidamento dei rapporti tra il paziente e i caregivers. La critica maggiore che è stata rivolta alla ROT concerne sia la sua efficacia nei soli casi contrassegnati da un grado lieve di compromissione cognitiva ma anche l’evidenza che ad un miglioramento nelle prestazioni cognitive non corrisponda una ricaduta sul piano funzionale, ossia sul livello dell’autosufficienza  e sulle abilità quotidiane. Inoltre, è intuitivo quanto l’efficacia della ROT si debba considerare operatore-dipendente.

Illustrazione 7 - Neurologia

Cosa sono le terapie di stimolazione della memoria?

La memoria, come già fu riconosciuto da  Aristotele, è una funzione essenziale per la elaborazione concettuale. Schematicamente si distingue in memoria a breve termine (working memory), che ci consente di mantenere l’informazione per un certo compito, svolto il quale può essere subito eliminata, ed in una memoria a lungo termine, che immagazzina e recupera le informazioni lontane nel tempo. La memoria a lungo termine è a sua volta costituita da una forma esplicita o dichiarativa, che si identifica con la memoria del sapere, e da una forma implicita non dichiarativa che  rappresenta la memoria del fare.

Espressioni della memoria del sapere sono la memoria autobiografica, relativa agli avvenimenti personali verificatisi nel corso della nostra vita; la memoria semantica enciclopedica, che racchiude le informazioni comuni agli individui appartenenti a una stessa cultura; la memoria prospettica che permette di programmare una azione da compiere nel futuro. La memoria implicita non dichiarativa comprende a sua volta la memoria procedurale, che rappresenta la sequenza automatizzata dei comportamenti finalizzati a raggiungere uno scopo o a compiere una azione, e la memoria condizionata che ci consente di associare ad uno stimolo ambientale  una nostra azione, come intuito da Pavlov nell’elaborazione del concetto di riflesso condizionato. Il disturbo della memoria caratteristico della demenza riguarda anzitutto la memoria a breve termine; poi, successivamente, la memoria autobiografica, lasciando relativamente intatta la semantica e la prospettica; la memoria procedurale può in determinati casi rimanere intatta per tutta la durata della malattia. Pertanto, con interventi cognitivi specifici si mira a riabilitare e compensare i deficit mnesici con l’utilizzo stereotipato e ripetitivo delle capacità residue a scapito di quelle parzialmente decadute in seguito alla patologia e tenendo conto della disintegrazione più lenta del linguaggio rispetto ad altre funzioni. Ciò viene attuato ottimizzando la memoria episodica residua e sfruttando la naturale tendenza dell’anziano a rievocare il proprio passato.

La tecnica della reminiscenza trova il proprio supporto nella teoria psicodinamica ossia si fonda sul ruolo positivo che il ricordo di esperienze passate può svolgere sull’autostima, sul mantenimento dell’identità personale, sul contenimento dello stato depressivo. Gli interventi diretti alla stimolazione si avvalgono di ausili esterni passivi (modificazioni ambientali e accorgimenti quali segnaposto, suonerie, etc. finalizzati all’orientamento spazio – temporale) e di ausili esterni attivi (accorgimenti che prevedono una gestione diretta e attiva del soggetto, come per esempio diari, finalizzati ad orientare nel tempo e nello spazio). Il memory training è un programma riabilitativo che si fonda sull’utilizzo della mnemotecnica caratterizzata dal recupero di una stessa informazione ad intervalli di tempo crescente (reinforcement) finalizzata all’identificazione di oggetti ed alla loro collocazione spaziale e contestualmente a creare un ordine mentale per memorizzare la programmazione di attività quotidiane. Il training nella fase strutturata è gestito da un terapeuta e si attua con gruppi di 4–5 soggetti, attraverso incontri della durata di 60-75 min., a frequenza bi-trisettimanale; nella fase non strutturata,  è affidato ai caregivers ed accompagna il soggetto per tutta la giornata. Elemento comune è quello di suddividere qualsiasi stimolazione  in sequenze per sottolineare l’aspetto procedurale delle attività evocate.

La riabilitazione della memoria, per ultimo, può transitare anche attraverso la stimolazione multisensoriale non verbale erogando stimoli inerenti la memoria visiva, uditiva, olfattiva, tattile e gustativa.

Cos'è la Terapia di Validazione?

Scopo di questa forma di terapia,  proposta da Feil nel 1967, è di ingenerare nel paziente il convincimento che il suo mondo sia pienamente condiviso; condizione necessaria è che, attraverso l’ascolto da parte del terapista ed un valido contatto emotivo, si costruisca con lui un vero rapporto empatico grazie al quale egli veda accettati la sua realtà ed i suoi sentimenti. Si deduce, pertanto, che  l’obiettivo di questa terapia non è quello di ricondurre il paziente nella realtà attuale. È in sostanza l’unica risorsa applicabile al paziente con decadimento moderato o severo, la cui scarsa riserva cognitiva rende del tutto inutile prospettargli il “principio di realtà”, ma penetrando “nel suo mondo” e condividendone sentimenti ed emozioni si possono  di conseguenza capire i comportamenti. Vedendo “riconosciuti” i propri sentimenti il paziente può recuperare l’autostima e percepire di essere accettato come soggetto in grado di mantenere autonomamente relazioni interpersonali. In questo ambito trova particolare spazio la già citata terapia della Reminiscenza (rievocazione di momenti significativi della propria vita anche tramite l’ausilio di oggetti o fotografie) perché il ricordo e la nostalgia possono essere fonte di soddisfazione ed idealizzazione. Al pari del ROT e del Memory training anche la terapia di validazione può essere applicata sia individualmente che in gruppi (5-10 partecipanti) che si incontrano regolarmente. L'incontro di gruppo, della durata variabile di 30-60 minuti, si articola abitualmente in fasi distinte in cui trova spazio la musica, l'esercizio motorio ed anche un coffe break le quali fungono da stimolo al dialogo. In tal modo il paziente è portato ad esternare la sua visione della realtà per la quale viene mostrata comprensione e partecipazione ed a cui si aggiungono coerenti elementi di discussione.

Illustrazione 8 - Neurologia

Cos'è la terapia di Rimotivazione?

Attraverso questa modalità di approccio cognitivo-comportamentale, che si applica individualmente o in gruppi, si punta a stimolare l’interazione sociale del paziente creandogli nuovi interessi che lo sollecitino a relazionarsi con gli altri attraverso la discussione su argomenti inerenti la realtà circostante. È intuitivo quanto questa tecnica si adatti a  pazienti con deficit cognitivo medio-lieve in grado di sostenere una conversazione. Scopo precipuo è quello di limitare la tendenza all’isolamento del paziente.

Cos'è la terapia occupazionale?

Lo scopo principale della terapia occupazionale consiste nel fare in modo che il paziente, tramite una molteplicità di procedimenti orientati all’azione ed all’adattamento all’ambiente circostante, possa riacquisire il maggior grado possibile di autonomia ed indipendenza nella sua quotidianità, facendo leva sulla reminescenza ed i ricordi del passato.

La terapia occupazionale, in relazione alle diverse attività svolte (laboratorio di cucina, di grafica, di artigianato, di arte, teatro e danza, etc.), attiva le capacità residue individuali e lo sviluppo dell’iniziativa personale, incrementando in tal modo l’autostima e motivando il paziente alla socializzazione per una condivisione di esperienze con gli altri. Ma nel contempo esplica una complessa funzione riabilitativa perché stimolando la motricità fine che implica l’utilizzo delle mani migliora la coordinazione motoria; inoltre, stimolando i sensi attraverso la percezione visiva, la propriocezione (ossia la capacità di percepire e riconoscere la posizione del proprio corpo nello spazio)  induce un miglioramento dei processi della memoria tramite i momenti rievocativi delle strumentazioni adoperate e delle azioni svolte. In questo contesto si inseriscono altresì le forme di attività artistica che hanno a comune denominatore l’utilizzo della simbologia. L’Arte-terapia è una disciplina che, utilizzando le tecniche e la decodifica dell'arte grafico-plastica, attiva le risorse creative del paziente promuovendo la produzione di manufatti che diventano simboli comunicabili di pensieri ed emozioni. Analogamente la Dramma-terapia mira ad un miglioramento della qualità della vita attraverso il potere curativo del teatro, facendo rivestire al paziente ruoli che gli consentono una esplorazione guidata dei propri sentimenti e delle diverse possibilità di essere al mondo insieme agli altri. La Dance Therapy di gruppo aiuta le persone ad uscire dall’isolamento; nel contempo, il movimento ritmico allenta la rigidità muscolare, diminuisce l’ansia e aumenta l’energia, inoltre, il movimento creativo incoraggia l’auto-espressione e stimola nuovi modi di pensare e di fare. La Musico Terapia attraverso il ruolo del suono e degli strumenti esplica un’attività terapeutica come forma organizzatrice del movimento, degli stati cognitivi ed emotivi.

Illustrazione 9 - Neurologia

In appendice alla terapia delle demenze con farmaci e con programmi di intervento riabilitativo, occorre menzionare brevemente la terapia neurochirurgica che viene adottata in caso di idrocefalo normoteso. Il solo trattamento ritenuto efficace è lo shunt, vale a dire l’applicazione di un catetere di drenaggio del liquor dal ventricolo laterale verso una cavità sierosa del corpo, generalmente il peritoneo. Negli ultimi anni, in virtù della sua minore invasività, si tende a trattare l’idrocefalo normoteso con la procedura alternativa della ventricolocisternostomia che consiste nel praticare mediante il neuro-endoscopio, introdotto attraverso  un piccolo foro della teca cranica, una comunicazione fra il pavimento del terzo ventricolo e gli spazi subaracnoidei che sono alla base dell’encefalo. L'intervento neurochirurgico, nei casi accuratamente selezionati con diagnosi posta correttamente, ha maggiori probabilità di successo nei pazienti che manifestano una sindrome classica e nei quali i disturbi sono presenti da non più di un anno e sono relativamente lievi. La maggior parte delle casistiche indicano  una regressione della triade sintomatologica nel 40% dei casi idiopatici anche se le indagini neuroradiologiche (TC e RM encefaliche) spesso non mostrano eclatanti variazioni delle dimensioni ventricolari, pur in presenza di una scomparsa della sintomatologia. Le procedure chirurgiche  risultano del tutto inefficaci nelle dilatazioni ventricolari secondarie ad atrofia da involuzione senile del cervello.

Nell’ambito del follow-up del paziente affetto da demenza una particolare attenzione va prestata alle complicanze. Nelle fasi iniziali i rischi maggiori sono legati alla guida, al rischio di perdersi, agli infortuni domestici (uso del gas e degli elettrodomestici, conservazione dei cibi), all’uso improprio delle finanze. Nelle fasi più avanzate i rischi sono maggiormente legati alle funzioni di base (cadute, malnutrizione, disfagia, immobilità).

Conclusioni

Tutto quanto è stato esposto in questa rassegna sulle demenze indica  che, malgrado l’evoluzione progressiva della malattia, c’è sempre lo spazio per fare qualcosa, perché il malato viva con dignità conservando una buona qualità di vita. I familiari in stretta alleanza con gli operatori sanitari devono assumere questo  imperativo come stella polare, creando  con pazienza, ottimismo, fantasia e versatilità le condizioni che contrastino le sopravvenute disabilità, adoperandosi a evitare al paziente ogni forma di stress, cui sono particolarmente vulnerabili, e situazioni di emarginazione, di solitudine e di perdita di relazioni affettive, perché la mancanza di stimoli sociali e culturali contribuisce in modo sostanziale ad impoverire la mente. Va sempre tenuto ben presente che le terapie farmacologiche così come le metodiche riabilitative se non sono indicate per quel tipo di demenza ed in quella fase della malattia possono addirittura peggiorare i sintomi o suscitarne di nuovi. È compito del medico specialista  valutare il tipo di farmaco e la metodica di riabilitazione più indicata fra quelle disponibili perché correttamente appropriata al singolo caso. Ciò che solamente può consentire, nell’ambito di una condizione destinata ad una progressione inesorabile, qualche possibilità di successo è rappresentato da un approccio diagnostico approfondito in grado di condizionare una realistica definizione degli obiettivi raggiungibili attraverso le risorse farmacologiche e riabilitative di cui oggi si dispone. Elemento decisivo della efficacia degli interventi, infine, resta la capacità di osservazione e di comunicazione con il paziente che condiziona risultati altrimenti insperati che, se ancora non sono in grado di sconfiggere la malattia, rappresentano comunque il segno di una dedizione tenace al problema di chi soffre.
 

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